Un ruggito a San Bartolo

Cronache da un raduno

A Firenze, un paio di mesi fa, si è tenuto un raduno di ammalati, gli SLAleoni, come amano definirsi. Si tratta, nonostante la SLA sia una malattia catastrofica, di un’allegra e pugnace combriccola, certo una minoranza, ma che val la pena di avvicinare, ben lontana, com'è, dal trito e tradizionale clichè stile "combattenti e reduci".
Ed ecco allora la breve cronaca:

Appena giunti a Firenze, raggiungiamo la Casa del popolo di San Bartolo, memoria vivente di ben altri fasti. Solo nelle capitali del nostrano "socialismo reale" manageriale che odora di ribollita, puoi trovare ancora questi santuari laici, a metà fra la elefantiaca sala del politburo e il teatrino parrocchiale. Una perla dell’architettura collettivista, che da sola varrebbe il viaggio.
All’ingresso scatta un fenomeno inedito: in un carosello di faccine da facebook e nickname da forum virtuale, ci si riconosce in un clima da rimpatriata, pur essendo la prima volta che ci si incontra nella vita. Esclamazioni, abbracci, pacche sulle spalle… Di lì in poi è una galleria di istantanee: la cena, i discorsi impegnati, poi quelli più intimi e familiari, immersi come siamo in questo salone delle feste un po’ decadente, sotto lo sguardo severo di un Che naif appeso alla parete.
L’incontro mio più difficile è con Tore, malato sardo in fase avanzata e leader di mille battaglie, che, lasciato sull’isola il comunicatore personale, sta litigando con quello di riserva della ditta lì convenuta, nel disperato tentativo di affidare le sue parole al sintetizzatore vocale, come di solito sa fare. E’ dura specchiarmi nel mio futuro prossimo e contemporaneamente provare l’imbarazzo di voler dialogare, ma udire solo la mia voce che pronuncia frasi che suonano stonate, perchè lui non può comunicare altro che con con gli occhi, vivacissimi, e con un disarmante sorriso. C’è tutto in questi gesti, ma devi interpretarli e non sei preparato a farlo; e ti rendi conto di quanto sia lunga la strada.
La mattina successiva, quando torniamo al Cremlino, già in ritardo sul programma, ci rendiamo conto che il ruggito degli Slaleoni a volte si trasforma in sbadiglio, perché la sala è vuota. Chi provato dalla sera prima, chi ancora in viaggio, quando la sala finalmente è al top dell’animazione è già ora di pranzo. Tanti i discorsi e i progetti abbozzati, contagiosa l'allegria che serpeggia, finchè anch’io tento qualche incontro ravvicinato, piuttosto sfortunato per la verità, con un paio di comunicatori oculari: il primo ha in antipatia le mie lenti progressive, il secondo non è connesso, per cui le curiosità che avevo me le tengo e ripiego sul buffet.
Nel primo pomeriggio giunge e riparte Luka, giovane ammalato gravissimo, costantemente allettato, ma vulcanico nelle sue iniziative, che si è sottoposto ad un viaggio estenuante in ambulanza, pur di non mancare, non si sa se al raduno in sé, o quanto piuttosto per concedersi ai gridolini di giubilo delle donne presenti, che gli riservano un’accoglienza degna del tappeto rosso del festival di Cannes. Un vero divo, amatissimo.
Intanto, poco alla volta, ci si scambia occhiate smarrite, orfani di un confronto “politico” che, in nome di una tregua forse non dichiarata o forse sì, non avrà mai luogo. Il fatto è che qui c’è un movimento che ancora deve diventare adulto, una famiglia di persone che ha imparato a volersi bene ma non ancora, evidentemente, a discutere con franchezza e serenità, e che preferisce evitare gli argomenti più difficili per non cadere nella rissa. Penso che questi problemi andranno affrontati, che ci sono divisioni che dovranno invece diventare sensibilità diverse che sappiano convivere in nome di un patto comune.
Ci intratteniamo simpaticamente via skype con Gian, scrittore genovese, poi si improvvisa qualche intervento a metà tra il saluto e il bilancio dell’incontro, e così accade che prendano proditoriamente il timone i rappresentanti delle ditte di comunicatori, che, tra la educata noia generale, provano ad imbonire una platea che sta ancora digerendo il buffet.
A risvegliare gli Slaleoni ci pensa Leo, ceramista di Forlì, il quale con voce rotta legge la lettera lasciataci da Luka e aggiunge pathos ad una piena emotiva a cui, giunti alla dodicesima ora di Raduno, basterebbe molto meno per tracimare.

Mentre consegna i piattini in ceramica con il fumetto disegnato da Staino, che ha prodotto nel suo Laboratorio, l’emozione è al massimo. E’ allora che prendo la parola.
Sento che devo ringraziare i partecipanti, perché mi hanno accolto facendomi sentire a casa, in un incontro che, adesso, pare scontato, ma che scontato non era.
E poi voglio richiamare i punti per me irrinunciabili del nostro stare insieme: la ricerca del nostro personale senso alle vicende di malattia, la responsabilità di prenderci cura di noi stessi e degli altri, la consapevolezza che le lotte per i diritti e la dignità sono comuni a tutti i malati in quanto persone e che dobbiamo intessere un dialogo quantomeno anche con chi porta malattie rare come la nostra, ma non la nostra capacità di aggregazione.
La commozione mi spezza la voce, perché sono forse le parole più di cuore e meno di testa che abbia mai pronunciato. Strana, la vita.

Il lavoro rende liberi


Mariarca Terracciano, l’infermiera di Napoli, è morta dopo essersi dissanguata, e poco importa stabilire se clinicamente questo esito sia stato, o meno, conseguenza diretta di quel gesto. Chiedeva di vedere rispettato il diritto a ricevere lo stipendio e per essere ascoltata si è pubblicamente svenata un po’ ogni giorno. Ha vinto la sua lotta, ma a costo della vita.
Lo stato agonizzante di una sanità, che si è fatta terreno di conquista degli interessi privati più feroci (6 miliardi di € di deficit, finiti interamente nelle tasche degli speculatori), e che da anni uccide i pazienti che ad essa si affidano, da oggi ha iniziato a giustiziare anche gli infermieri, lasciati senza stipendio, soli e isolati, alle prese con famiglia da mantenere e mutuo da pagare.
Lavoro, casa, istruzione e salute smettono di essere un diritto della persona, da conquistare e difendere collettivamente, e vengono anch’essi privatizzati: la lotta per i diritti è stata ormai derubricata a fatto personale, che solo gesti estremi, segnati dalla disperazione, possono sperare di riscattare.
Ha scritto Adriano Sofri, a proposito del moderno schiavismo dei call center, dove giovani laureati lavorano 13 ore al giorno per 6 € l’ora, in nero, e se alzano la testa vengono sottoposti a pene corporali, che le moderne schiere di precari vendono la propria forza lavoro senza nemmeno pensare di poter avere dei diritti. Né più né meno come gli immigrati, reclutati dai caporali per 20 € al giorno.

A partire dalle decine di impiegati suicidi della Telecom France, passando per le tragedie familiari dei lavoratori licenziati e dei piccoli imprenditori che falliscono e che trascinano con sé moglie e figli prima di rivolgere l’arma contro se stessi, per finire, perdonate l’autocitazione, con i malati di SLA che rischiano il corpo già disfatto con lo sciopero della fame, credo che nel mondo occidentale avanzato si sia entrati in una fase nuova di quello che una volta si sarebbe chiamato “il manifestarsi delle contraddizioni del sistema”. Per non parlare del sistema stesso, che da tre anni è entrato in crisi economica globale e sta spalmandone le conseguenze buttando sul lastrico mezza Europa. La Grecia non è che l’inizio.
Qualcuno ha detto che uno degli elementi determinanti per il trionfo del neoliberismo, è stato l’assorbimento del sindacato nella concertazione perpetua, dove l’oggetto del contendere non è, di volta in volta, chissà quale conquista, ma solo la quota di diritti da cedere: io ti propongo il 50% e tu sindacato ti batti per limitarla al 30%, e se ce la fai hai chiuso una trattativa soddisfacente, insomma hai vinto.
Un altro elemento è l’omologazione ai network della “visibilità”, l’inciviltà dell’immagine, quella per cui devi pubblicizzare la tua guerra privata su youtube e minacciare di venderti un rene alla “Prova del cuoco”. Se non riesci ad andare su internet e in televisione, sei fregato, non esisti.
Nelle assemblee di fabbrica, quando si cerca supporto alla lotta, anziché rivolgersi al sindacato, ormai squalificato e delegittimato, si vota per decidere se chiamare il Gabibbo o, in alternativa, Le Iene.

Così, a ben poco servono gli appelli, a volte sinceri a volte ipocriti, a non estremizzare le forme di lotta e a non rischiare la vita.
E se qualcuno avesse la tentazione di leggere quel che accade con categorie mediche, invocando depressione ed isteria, si dovrebbe rispondere che Schmidt e Benasayag, psichiatri, descrivendo il nostro tempo come “l’epoca delle passioni tristi”, hanno prescritto, come cura, la “terapia del legame”. Che, tradotto, vorrebbe dire riprendere un pensiero plurale, il “noi” e il senso di comunità, restituendo significato a parole tanto più vuote quanto ormai abusate: solidarietà e interessi comuni.
L’alternativa, in caso contrario, è continuare così, ognuno per sé, a fare i conti, giorno dopo giorno, con le proprie, privatissime disperazioni.

La libertà, infine


C’è chi segue ossessivamente i premi letterari e chi, come tanti ammalati fanno, non perde neppure un’uscita in libreria di ogni suo sconosciuto compagno di sventura, suo perché preferibilmente della sua propria stessa malattia. E poi ci sono i tanti che, al di fuori di questi recinti un po’psicopatologici, hanno avuto l’occasione di conoscere l’opera di Cesarina Vighy, detta “Titti”, semplicemente perché conquistati dalla sua stessa forza creativa. Opera che risulta composta, ahimè, da due soli volumi: L’ultima estate, il romanzo autobiografico con cui la ultrasettantenne bibliotecaria, veneziana e romana di adozione, ha esordito l’anno scorso vincendo, curiosamente, il Premio Campiello per l’Opera Prima, e Scendo, buon proseguimento, l’opera seconda, uscita in libreria appena la scorsa settimana.
Perchè proprio il giorno dopo, 1° maggio, Titti “è scesa” e ci ha lasciato per sempre.

Quello che mi affascina e sorprende della sua vicenda è che questa abbia con la malattia un unico, fondamentale punto di contatto: che sia dal corpo fattosi gabbia che l’autrice abbia tratto la propria assoluta libertà intellettuale.
Avrebbe da molto tempo voluto scrivere, ma non si sentiva autorizzata. Poi, colpita dalla SLA, per sua scelta si è ritirata in casa, concedendosi solo agli affetti più cari e a chi la assisteva. Ha considerato il decadimento fisico devastante della malattia un’offesa, una mutilazione, e ha rifiutato di accettarla, perché, come ha scritto nell’Ultima estate, si accetta quel che viene proposto, non ciò che viene imposto con la forza. In realtà ha saputo invece elaborare il lutto del corpo trasfigurandone e sublimandone il senso di impotenza nella libertà di quel che resta, dopo il corpo che cede: l’interiorità, il pensiero.
Si è definita “spudoratamente libera: perché dovrei temere per i miei rapporti affettivi? Censurare i pensieri sarebbe come aumentare lo scacco, aggiungere blocco al blocco. La libertà di parola e il coraggio delle proprie convinzioni sono una conquista.”

Così, ha scritto intensamente, distillando nel suo primo romanzo tutto il suo personalissimo stile, scrivendo non la storia della malattia, ma la storia di una vita, lontanissima dalla malattia, che fa appena capolino solo nell’ultima, irresistibile parte del libro. “Ma io, la larva cocciuta, ho provato intanto l' estasi della scrittura. Scrivo e scrivo, con una facilità e una felicità mai provate prima: quasi ho dimenticato la sfida a resistere per riversare nel mio libro quello che mi è capitato nella vita di bello e di brutto, entro ed esco dalla malattia come un fantasma attraversa i muri, beffando chi si ferma davanti a una porta chiusa. Ho qualcosa di meglio da fare, io: recuperare la mia vita che sembrava ormai spezzata in due tronconi, prima della malattia e dopo la malattia. Solo ora ho scoperto che ci si può stare anche "dentro", profittando di quel dono avvelenato che ci hanno fatto: mantenere la mente lucida, forse più lucida di prima, sino alla fine. Via il pigiama, lavarsi o farsi lavare, vestirsi o farsi vestire: è un viaggio che ci aspetta, lungo o corto che sia. I miracoli li facciamo noi.”

La spiritualità che traspare dalle sue “laicissime pagine” le è riconosciuta addirittura dal teologo Vito Mancuso, che si è lasciato progressivamente conquistare dal suo secondo volume, man mano che questo prendeva forma, fino ad accettare di scriverne l’introduzione. Un’opera letteraria che percorre, nella sua costruzione, un intero itinerario, partendo dalla raccolta di lettere che nell’era di internet Cesarina ha scritto per 3 lunghi anni, come suo personale ponte col mondo, per approdare infine al lavoro compiuto, e inanellando, lungo il sentiero, personaggi e storie con mirabile equilibrio fra tragedia e commedia.
Nell’ultima intervista ha detto: “In famiglia abbiamo sempre scherzato su tutto. Con mio marito, in particolare, è stata la chiave per esorcizzare la paura: siamo entrambi indifesi di fronte alla prepotenza del male, all’ingiustizia, e abbiamo fatto dell’ironia e del cinismo (un altro segno di debolezza, in fondo) la nostra corazza di cartone contro i mali del mondo”.




intervista per "Extraterreni" - Raisatextra - 2004

Cinema / L’Uomo Che Verrà

Il "film che non c'è" vince il David di Donatello

Vince premi, ma nessuno lo può vedere. Così scrivevo a febbraio:
Questo è un invito ad una caccia al tesoro.
C’è un grande film che sta girando nelle sale italiane, ma bisogna essere più tenaci di un giocatore di gratta e vinci per indovinare data, città e cinema giusto.
Nell’Italia usa e getta di oggi, priva di memoria civile prima che storica, un regista indipendente come Giorgio Diritti ha svolto un lavoro di ricerca degno di un Ermanno Olmi (ma, a differenza di Olmi, assolutamente non palloso) e poi ha girato un film con la ormai consueta maestria nel dirigere attori e nel trasformare in attori gente comune. E, in ultimo, è stato costretto a consegnarsi alle regole delle lotterie per sperare che pochi, baciati dalla fortuna, possano godere della sua opera. E, si sa per esperienza, chi si affida alle lotterie ha perso in partenza.
Diritti infatti potrebbe essere un regista di successo e non lo è, così va il mondo. Ha lavorato molto con Pupi Avati, è bolognese come lui e ha firmato cinque anni fa, producendolo rigorosamente in cooperativa e rischiando di suo, quell’altro capolavoro che è “Il vento fa il suo giro”, storia di mancata integrazione dello straniero nella profonda Val Maira occitana. Ha mietuto successi in tutto il mondo e da noi è rimasto a lungo in cartellone solo grazie al passaparola che ha riempito le sale. Un’opera prima folgorante.
E ora, come un eterno debuttante, senza promozione e distribuito nel numero di UNA copia per capoluogo di regione, si ripete con “L’uomo che verrà”, che al momento è un missing, un desaparecido, una meteora cui non resta di nuovo che affidarsi al passa parola per essere avvistata.

Settembre 1944. Monte Sole, 30 km. a sud di Bologna. La vita contadina in una campagna boscosa e aspra, mezzadri poveri nell'Italia occupata dai nazisti, ribelli male organizzati e cittadini in fuga dai bombardamenti. E’ un mondo osservato con muta partecipazione da una bambina di 8 anni. Un dialetto perfetto come una lingua (con sottotitoli che dopo un po’ te li scordi) per l'eccidio che passerà alla storia come la strage di Marzabotto. Ma la strage non è il vero cuore del film, l’essenza sono la banalità del male e l'innocenza di un'Italia che non c'è più, l’invenzione di un modo di raccontare lineare e fresco, nuovo dopo l’avvenuta certificazione di morte delle ideologie.

C’è dentro tutto: la famiglia, il lavoro, l’identità e la dignità di un popolo e di una classe sociale, senza ombra di retorica alcuna. E le speranze di rinascita, indomabili e ogni volta tradite. Un film per molte ragioni attualissimo e bello, che emoziona con leggerezza, a dispetto delle ambizioni che avrebbero potuto renderlo indigesto.
Per questo vi consiglio, ribellatevi per una volta ai cinepanettoni e giocate alla caccia al tesoro. Cercate questo film e, se lo trovate, coglietelo al volo, non ve ne pentirete.



La mazurka clandestina


Una cara persona mi ha scritto questa storia, vera, raccontatale a sua volta da una sua nuova amica, una ragazza che ama moltissimo il ballo, conosciuta per caso poco tempo fa.

In Francia i balli di coppia, le danze popolari, il ballo al palchetto si imparano da piccoli e si danzano spesso, anche da giovani, con passione e senza vergogna.
Qui da noi è diverso e molti balli popolari, valzer, polke e mazurke sono ormai appannaggio di feste di paese, frequentate prevalentemente da anziani e così i giovani che vogliono ballare spesso vanno in Francia, oltre il confine, ad incontrare altri ballerini della loro età, a mischiare passi e sudore, musica e allegria.
Le danze che ballano sono antiche, ma la voglia di trasformarle fa sì che a volte i passi, quasi senza intenzione, incomincino un po’ a cambiare, i corpi, quasi impercettibilmente, a modificare la loro postura, il ritmo ad accelerare o a rallentare, gli sguardi nelle coppie a sembrare diversi e un'eccitazione nuova pervade la pista.
In particolare, c'è un ballo che sembra non voler più stare negli schemi dati, nelle distanze, nei movimenti: quel ballo è la mazurka.
Di danza in danza, di sera in sera, di gruppo in gruppo e di festa in festa la mazurka cambia, i passi accelerano, i corpi si avvicinano e si toccano, spalla contro spalla, guancia con guancia, fianchi, braccia, gambe. Intensi ma riservati, passionali ma precisi e nel pieno rispetto dello spazio e dell'integrità dell'altro, i ballerini imparano a guidarsi col contatto, col tocco, a occhi chiusi o aperti, seguendo la musica istintivamente, nei vecchi schemi, ma nel nuovo corpo, nel nuovo tempo.
E, sentendosi pionieri, rivoluzionari ma legati ai maestri, la battezzano la mazurka clandestina e decidono che la balleranno solo di nascosto, e di notte, per godersi la festa e per non disturbare e forse per non offendere.
Così la voce si sparge sotterranea. Un tam tam clandestino racconta e chiama a raccolta i ballerini della mazurka clandestina e annuncia il luogo, sempre una piazza, e l'ora del ritrovo, e il nome dei suonatori.
Così, al calar della notte, uomini e donne occupano le piazze, i suonatori si dispongono e le danze si aprono. E si balla, si balla per tutta la notte e si beve e si canta fino all'alba, corpi abbracciati, in silenzio, giri su giri, finché viene l'alba.
Allora i ballerini ed i suonatori lasciano la piazza e se ne vanno, alla spicciolata, ridendo o in silenzio, felici o stremati.
Dicono che ogni mazurka clandestina sia diversa, più bella, o più brutta, ma unica ogni volta.
Portata dal vento e dai nostri giovani che vanno in Francia, la mazurka clandestina è arrivata anche qui, nella nostra città. Si occupano le piazze, di notte, e si danza.
Tu lo sapevi, lo immaginavi, che, a volte, mentre noi dormiamo, in una piazza qui accanto uomini e donne danzano vicini, alla luce dei lampioni? Forse li vediamo nei sogni, ma non sappiamo che sono loro, che avremmo potuto unirci a loro o solo restare a guardarli mentre la notte scivola verso l'alba e la città li accoglie, ma nascosti, nella piazza, all'aperto. Che meraviglia, è la voce della luna, la luce dell'universo, è la danza dei respiri di noi tutti che dormiamo.
Poi è solo la piazza rimasta vuota, e la città che si sveglia.
Ho chiesto di sapere quale sarà la prossima mazurka clandestina. Ora che lo so, non vorrei perderla. La mia nuova amica ha promesso che me lo dirà.

(già pubblicato in www.iovivoiovivro.it)