Un popolo senza memoria


mia madre, il giorno delle nozze
2 dicembre  '44
Il pezzo è stato pubblicato nella rubrica Oltre la penna degli Amanti dei libri al link:  www.gliamantideilibri.it

Sto scrivendo una storia di ambientazione partigiana. Bella roba, dirà il lettore, roba vecchia di almeno settant’anni. Dissento: 70 anni nella storia di una nazione sono niente, un alito di vento, soprattutto per un popolo che ancora non ha fatto i conti con la propria storia. Tutti, o quasi, ci siamo divertiti, appassionati e commossi di fronte alla rilettura che della nostra Costituzione ha fatto Roberto Benigni. Bene, la nostra Costituzione viene da lì, dalla lotta partigiana e da vent’anni di buio. Da allora il mondo intero è cambiato, ma “la Costituzione più bella del mondo” è rimasta giovane, come fosse stata scritta iersera.
Parlo di “storia” e non di romanzo partigiano per rispetto a Beppe Fenoglio ed all’immensità di lui come autore, che del romanzo partigiano è stato maestro. Ricordo ancora l’emozione che mi diede, sui banchi del liceo, la lettura integrale de La malora che un professore illuminato ci impartì, lui che sapeva alternare sapientemente Ovidio ai contemporanei. La malora è un romanzo breve di dura vita contadina nelle Langhe, ma poi fu la volta de Il partigiano Johnny, con tutti quei neologismi e le frasi in inglese, pubblicato postumo soltanto pochi anni prima, ad aprire ad un linguaggio letterario modernissimo la resistenza italiana, ancora malata di provincialismo.
Tornando a noi, lo spunto per il racconto me l’ha dato una piccola storia familiare. I miei genitori si sposarono nel dicembre del ’44, e le loro nozze ebbero del rocambolesco. La funzione venne interrotta da un allarme aereo e tutti gli astanti corsero verso il rifugio, lasciando soli il sacerdote, i miei e i testimoni, imperterriti sotto il bombardamento. Mia madre, figlia di un fervente socialista d’altri tempi, contribuì a ospitare nella casa paterna una famiglia ebrea, altrimenti destinata al campo di sterminio. Questo fatto accadde con la naturalezza dei piccoli-grandi gesti ed è solo grazie all’insistenza di mia sorella che mia madre, poco prima di lasciarci, acconsentì a scriverne in una sorta di breve diario di ricordi.
Nell’era della rete e dei “cinguettii” di twitter, la perdita della trasmissione orale tra le generazioni ci priva quasi del tutto di memoria, che nessun libro di storia ci può restituire. Perché le storie narrate ci permettono, a differenza della cronaca, di aprirci ai sentimenti, alle emozioni ed al pensiero, attivano il processo di identificazione e attingono al simbolico, di cui ha fame la nostra anima. Mia figlia, ad esempio, oltre che a scuola, si è formata la sua coscienza critica anche ascoltando il racconto che della ritirata di Russia le fece il nonno materno, tenendola sulle ginocchia. La perdita della memoria storica io la considero alla stregua di un piccolo crimine sociale.
Così, rischia di tornare d’attualità il tema del fascismo, non solo perché nelle recenti elezioni si potevano trovare in corsa ben quattro formazioni di ispirazione neo-fascista, ma per il ruolo che assume Alba dorata in Grecia e per la svolta autoritaria in Ungheria, di cui parla il solo Saviano. Sono quotidiani i tentativi di rivalutazione del regime fascista da parte di esponenti politici di primo piano, per ignoranza prima ancora che per strumentalità, nel cuore di una crisi che non ha precedenti. C’è un’Italia da rifare, qualcuno dice che è un’impresa quasi analoga a quella della ricostruzione dopo la guerra. E allora, riscattare la memoria è opera necessaria.
Così, con questo spirito, ho scelto di accingermi a raccontare la storia di due ragazzi negli ultimi mesi di guerra, protagonisti di eventi molto più grandi di loro, di cui sono in gran parte inconsapevoli. Le storie di due ventenni, l’una liberamente ispirata a mia madre, l’altro un partigiano di una “volante” adibita ad azioni di sabotaggio in pianura. Due storie che si incroceranno, in un tempo di crisi che richiedeva il coraggio di scelte coraggiose. Compiute quasi inconsapevolmente, solo perché era giusto prenderle.
Ho letto Io sono l’ultimo, un lavoro di ricerca recentissimo sulle testimonianze degli ultimi partigiani ancora viventi, edito da Einaudi, e in tutti albergava la certezza di essere nel giusto.
Oggi sono altre le scelte coraggiose che si richiedono a chi, appartenendo ad una generazione a cui abbiamo rubato il futuro, ha di fronte a sé un domani di precarietà.
Scelte non meno impegnative, come quella di restare, nonostante tutto.

20 marzo 2013
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L'intervista dopo l'uscita di Questa notte è la mia, romanzo



L'articolo è comparso su www.infinitestorie.it con il titolo "Rincorrendo la vita".

Mantenere la mente lucida, sempre. Questo è quanto scrive Alberto Damilano sul suo blog. E questo è quanto ha dovuto ed è riuscito a fare da quando, nel 2009, si è ammalato di sclerosi laterale amiotrofica (SLA).Questa notte è la mia è il suo primo romanzo ed è l'esempio perfetto della sua forza d'animo. Un protagonista, Andrea, che a quarant'anni si scopre affetto da una grave malattia neurodegenerativa che ricorda in tutto e per tutto quella dell'autore ma che non verrà mai nominata. L'escalation di difficoltà giorno dopo giorno ma in parallelo una specie di miracolo: Andrea, giornalista insoddisfatto e con un matrimonio che sembra non avere più senso, decide di non lasciarsi andare, ma di trovare nuovi stimoli, nuove motivazioni e, già su una sedia a rotelle, si appassiona all'inchiesta che sta seguendo il giovane collega Francesco, un caso di infiltrazioni criminali nelle istituzioni torinesi, affiancandolo nelle indagini. Di questo romanzo Massimo Gramellini ha scritto: ”Credevo di leggere il racconto di una malattia e invece ho trovato una cura“. Alberto Damilano, che scrive per mezzo di un puntatore oculare, ha accettato volentieri di rispondere alle nostre domande.

D. Lei si è ammalato di SLA nel 2009 e sembra aver trovato forza e conforto nella scrittura, Questa notte è la mia è il risultato: quanto è stato importante per lei questo progetto, da dove è nata la necessità e in che modo l'ha aiutata?

R. In psichiatria, il mestiere che praticavo prima di ammalarmi, la dimensione narrativa è fondamentale. Nel percorso psicoterapeutico guarire è come demolire, almeno in parte, il racconto che si ha di sé e della propria vita per costruirne un altro. Per me scrivere è stato (ed è) come ritrovare se stessi e, insieme, una forma di cura. Le storie che curano non sono tali solo per chi legge, ma anche per chi scrive. È accaduto per caso, avevo aperto un blog in rete dove affrontavo argomenti vari e, come racconto nella post-fazione, una collega diventata giornalista e scrittrice, che apprezzava il mio modo di scrivere, mi chiese una testimonianza sulla malattia. Questa notte è la mia è nato così. Dal rifiuto di annoiare il lettore e dall'intenzione di coinvolgerlo in qualcosa che fosse in grado di appassionarlo. L'intensità del racconto, che qualcuno mi attribuisce, è dovuta, credo, alla passione stessa con cui l'ho scritto.

D. La bellissima dedica del libro è a sua moglie Francesca, ”che si è fatta ombra discreta“. Quale è stato il ruolo dei suoi familiari nell'accompagnarla verso la scrittura?

R. Convivere con la SLA in stadio avanzato non è impresa da poco, sia per l'interessato che per i familiari, materialmente e psicologicamente. Francesca è la mia àncora, mi dà la sicurezza che io sono sempre io (andate a rileggere le parole di Marta quando viene a sapere della malattia, le parole sono le sue). Scrivere, nelle mie condizioni, è anche faticoso, dovendo usare un puntatore oculare che legge i movimenti degli occhi su una tastiera virtuale. Lei è, quando scrivo, il custode della mia concentrazione: filtra le visite ed è discreta, appunto, presente e vigile quanto basta. La malattia, in questo stadio, è un rischio continuo, 24 ore al giorno. E poi ho una figlia meravigliosa, la prima fan di quel che scrivo.

D. Andrea, il protagonista de Questa notte è la mia, è un giornalista che si scopre malato di SLA (anche se la malattia non è mai nominata in modo esplicito) ma che reagisce con grande forza e si impegna in una complicata inchiesta giornalistica aiutando un collega più giovane e inesperto. Quanto c'è di autobiografico nel libro e come è nato il personaggio di Andrea? E ancora, perché ha scelto di non nominare la malattia nel corso della storia?

R. La figura di mio padre, autorevole ed autoritario, mi ha accompagnato tutta la vita, anche dopo che è mancato, contribuendo ad alimentare le mie insicurezze. Avevo bisogno di un personaggio che le amplificasse e tanto lontano dalla mia professione, così dal poterne prendere le giuste distanze. Un personaggio che, quando non c'è più nulla da perdere, accetta la malattia ed è capace di fare appello alle risorse interne migliori, che erano presenti e di cui non aveva consapevolezza. Che è, in parte, la mia storia. Ho scelto di non nominare mai la malattia perché volevo che il racconto avesse un valore in qualche modo universale. Restando alle malattie, non è solo la SLA a costringere a scelte radicali, estreme, che consente di riconsiderare in breve tempo l'intera vita e permette di riscattarla ai propri stessi occhi. Ma lo stesso accade di fronte ad accadimenti di altra natura e comunque imprevedibili e catastrofici, che pongono un aut aut brutale, o adattarsi o rinunciare a vivere. Se si è in grado di vivere una sorta di ”second life“, allora la gerarchia dei valori cambia e può accadere di incontrare territori umani prima inesplorati. È un'esperienza esistenziale completamente nuova.

D. Un personaggio molto importante del libro è però anche Massimo – medico psichiatra – caro amico e confidente di Andrea. I due appaiono allo stesso tempo lontani e vicini, simili e diversi, e sembrano sostenersi l'un altro. Vuole parlarci brevemente di questo rapporto di amicizia, del peso che ha nella storia e di quanto può essere importante un amico di questo tipo nella vita?

R. Massimo è, dopo Andrea, il mio secondo alter ego. È allo stesso tempo un paesaggio dell'anima con il quale tessere un dialogo interiore, quanto una persona reale, che non fugge per paura, semplicemente perché già ha dovuto fare i conti con la vita, e li ha risolti. È, in fondo, quella saggezza che ci manca di fronte alle grandi scelte della vita. È esperienza comune, ed è anche la mia, di perdere tante amicizie, una volta che l'ineluttabile si profila all'orizzonte. Per l'angoscia, in fondo, di confrontarsi con parti di sé irrisolte. Massimo è l'amico che non ti abbandona mai, quello che ognuno vorrebbe incontrare nella vita.

D. Il giornalismo investigativo, la malattia, il tema delle infiltrazioni mafiose nelle istituzioni... I temi e le ambientazioni della sua storia fanno pensare che nel suo libro siano contenuti messaggi e denunce, affidati in parte alla postfazione. È effettivamente così? Quali sono i messaggi che affida al libro e che si augura giungano ai suoi lettori e magari non solo a loro?

R. Credo che la realtà sia molto complessa, ma che questo sia spesso un alibi auto assolutorio per le scelte non fatte. I peccati di omissione, mi si passi il termine, per me agnostico, sono i peggiori. Di fronte alla corruzione dilagante, all'ingiustizia sociale, agli stereotipi culturali ed ideologici che sequestrano la libertà di essere se stessi, non è possibile non prendere posizione, continuare a tacere. Non ho particolari messaggi da affidare al lettore, se non questo. Insieme al dovere di avere memoria. Sto scrivendo, in questo periodo, un romanzo di ambientazione partigiana, un periodo della nostra storia in cui le scelte erano difficili, eppure si seppe prendere posizione e scegliere la parte giusta, a costo della vita. È nei periodi critici che gli individui e i popoli sanno esprimere il meglio di sé, purché non solo se ne conservi memoria, ma si sappia renderla cosa viva e non oggetto da museo, oggetto di pura contemplazione estetica.

4 marzo 2013
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