Lunedì 21 giugno: manifestazione nazionale per “l’immediata approvazione dei LEA e del nomenclatore”, un freddo titolo burocratico che, per capirci, sta per “lotta per la vita per i malati di Sla”. Perché avere o non avere finalmente una normativa che preveda l’assistenza domiciliare, insieme alla possibilità di continuare a comunicare anche quando si è completamente paralizzati e si muovono solo più gli occhi, può fare la differenza. Tra i motivi per cui l’85% dei malati si lascia morire, rifiutando la tracheotomia e la respirazione artificiale c’è anche questo: persone che si sentono un peso insopportabile per i propri cari e arrivano a considerare la vita non più degna di essere vissuta.
Così, dopo che AISLA, l’associazione nazionale dei malati, ha rotto gli indugi e si è posta alla testa del movimento di protesta (che già nell’autunno-inverno scorso si era fatto duramente sentire anche con iniziative di sciopero della fame) a Roma, in Piazza Montecitorio, i malati di Sla hanno provato ancora una volta ad uscire dall’invisibilità: almeno 50, alcuni in condizioni estreme, e 200 accompagnatori, confluiti da tutte le regioni d’Italia. A dare loro una mano, altre associazioni, di malati e disabili.
In piazza, quel giorno, c’ero anch’io. E ho visto le lacrime di commozione di chi è stanco di non essere ascoltato e sa che il momento potrebbe essere decisivo. Ho visto i sorrisi di chi si riconosce negli altri, li può salutare solo strizzando gli occhi, o toccarli facendosi aiutare ad alzare una mano. Ho visto lo strazio dei miei compagni di viaggio ingabbiati nel corpo, ma con sguardi che trasmettevano lucidità e determinazione. Ho visto la rabbia e l’esasperazione, ho sentito le parole gridate, ma scelte con consapevolezza, di chi non ce la fa più e sente di non vivere in un paese civile. E mi sono detto che tutto questo non poteva non scuotere le coscienze.
Ma in questa Italia corrotta e dal pelo sullo stomaco ai massimi storici, ci vuole ben altro per smuovere la determinazione, altrettanto incrollabile, di chi considera un disabile non una persona, ma un “freno alla competitività”, e non si vergogna neppure di dirlo dallo scranno del Ministero del Tesoro.
Così, è accaduto, in ordinata sequenza: che si finisse confinati in una ben allestita riserva indiana di circa 300 metri quadri, lo spazio più lontano da Montecitorio, dove tutte le minoranze offese del belpaese fanno disciplinatamente i turni per protestare, tra l’indifferenza generale e la curiosità dei turisti.
Che pericolosi sovversivi in carrozzella e respiratore manifestassero circondati da agenti antisommossa che controllavano chiunque osasse fare un passo, anche solo per recuperare ombrelli o sfogliatelle napoletane da distribuire ai partecipanti.
Che la sede del Parlamento svettasse alle nostre spalle, con le finestre sbarrate e verosimilmente deserta.
Che all’impegno incessante dei presenti nel farsi notare facesse da stonata eco l’assenza dei politici, unica eccezione un Casini solidale che farà il giorno seguente una interrogazione al Ministro Fazio (degnata solo di un’evasiva risposta scaricabarile) e la compatta latitanza dei media nazionali, unica eccezione l’ex telekabul, sempre più imbavagliata e inoffensiva.
Che dal microfono dell’organizzazione venisse ripetuto l’annuncio che a minuti sarebbe sceso il sottosegretario del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. I manifestanti lo stanno ancora aspettando adesso. Chissà se esiste davvero.
Dopo 4 ore di presidio, la manifestazione si è sciolta tra gli applausi rivolti alla delegazione che, apprestandosi a salire per essere ricevuta dal braccio destro del Presidente del Consiglio, prometteva che, dopo tre anni di promesse, non avrebbe più accettato promesse. Poco dopo, il Sottosegretario Gianni Letta concludeva l’incontro, non senza aver prima proferito parole costernate e solidali, con una altisonante promessa: "Da oggi il vostro presidio sarò io".
Un brivido ha percorso i manifestanti sulla via del ritorno.
Sostituito, nel giro di poco, da una certezza, che sta diventando il passaparola di questi giorni: Roma è stata solo l’inizio, la nostra pazienza ha una data di scadenza.