La cruna dell'ago

Intervento all'assemblea torinese dell'Associazione Luca Coscioni

Torino, 12 febbraio 2010

Ho chiesto a Mina Welby la cortesia di leggervi questo mio breve intervento perché sono confinato a letto da un banale male di stagione che, nelle mie condizioni di malato di Sclerosi laterale amiotrofica in rapida progressione , non solo è duro da sopportare, ma espone al rischio di pericolose complicazioni polmonari.
Salto i preamboli e vengo al dunque.
In tema di fine vita, una persona affetta da Sla, o da altra malattia neuromuscolare, come i casi di Luca e Piergiorgio hanno mostrato, presenta un elemento peculiare e aggiuntivo rispetto ad altre malattie altamente invalidanti: non sono solo in gioco, per la sopravvivenza , l’alimentazione e l’idratazione forzate, ma anche e soprattutto la ventilazione invasiva. Ben più del tubicino della PEG nello stomaco è infatti il tubo della tracheostomia la cruna dell’ago dell’intero percorso. Una cruna dell’ago attraverso la quale ad ognuno di noi viene chiesto, prima o poi, se intendiamo passare, ed intorno alla quale si consuma quotidianamente una strage silenziosa.
Secondo stime ragionevoli, in Italia, solo di Sla si ammalano dalle 1000 alle 1500 persone ogni anno. Di queste, oltre l’80% non darà il consenso informato alla tracheostomia e, di fatto, si lascerà morire. Dare o meno il consenso all’intervento di tracheostomia rappresenta infatti un vero e proprio spartiacque, perché accettarlo significa decidere di convertire la storia naturale di una malattia che molto spesso è ad esito rapidamente infausto, trasformandola in una malattia cronica, con una speranza di sopravvivenza anche assai prolungata negli anni.
Ecco, qui troviamo il primo nodo che ostacola il passaggio attraverso la cruna dell’ago: diventa improponibile pensare di poter convivere con una malattia già di per sé terribile, che lascia intatto, tra i movimenti volontari, unicamente il movimento degli occhi, se si è soli e privi dell’assistenza adeguata. E la regola è: persone care intorno a te e assistenza domiciliare zero.
Un tracheostomizzato ha bisogno di sorveglianza ed assistenza esperta 24 ore su 24.
Mogli, mariti, genitori e figli, a seconda dei casi, sono costretti a lasciare il lavoro, a non uscire più di casa, a non sapere come affrontare le spese, a doversi, addirittura, accollare la responsabilità di manovre che salvano la vita nei momenti di crisi. In queste condizioni, capite bene, la scelta non è libera.
Un efficace sistema di continuità assistenziale a domicilio, in questi casi, diventa l’equivalente di un farmaco salvavita. Ecco perché le lotte che da tempo conduciamo come malati per imporre livelli di assistenza adeguati, non hanno a che fare solo con il diritto alla salute, ma anche con la libertà di scelta.
Il secondo nodo riguarda invece il secondo momento del fine vita, quello che si presenterà dopo la tracheo. Una volta accettata, la ventilazione forzata, che si è in pieno diritto di rifiutare quando si fa necessaria e viene proposta, diventerà successivamente una condanna che io non avrò, di fatto, il diritto di chiedere mi venga sospesa. Dovrò affidarmi al buon cuore di qualche collega, più che alla deontologia , che pure da sola, accanto ai princìpi costituzionali, già dovrebbe bastare, perché lui faccia di nascosto, come un ladro, quello che pochi hanno il coraggio di fare alla luce del sole.
E accade, così, che ci sia anche chi, pur disposto a farsi praticare la tracheo, se posto di fronte ai casi come quello di “papà Enzo”, che a Natale se n’è andato dopo 12 giorni di agonia, durante i quali ha inutilmente implorato gli venisse risparmiata quella tortura, allora decida preventivamente in senso opposto, rifiutando di sottoporsi all’intervento.
Ecco, il mio appello è questo. Attenzione: i due nodi sono strettamente intrecciati e non possono essere separati, abbandono assistenziale e accanimento terapeutico sono due facce della stessa moneta.
La lotta per la vita e quella per la libertà di scelta sono inscindibili. Se tralasciamo l’una, l’altra perde di significato.
Non ci sono eserciti da armare, ha appena detto Beppino Englaro, ma credo si debba essere più consapevoli che la battaglia di impegno civile che abbiamo di fronte è assai complessa, e chiede di tenere insieme più piani, politico e amministrativo, culturale e normativo.
Io credo che la classe medica, al netto di chi partecipa alle crociate pro-vita, confondendo in malafede sospensione delle terapie, suicidio assistito ed eutanasia e accomunandole tout court all’omicidio, sia in gran parte disorientata, ma disponibile ad una discussione senza pregiudizi ideologici.
Grazie per l’attenzione, e auguriamoci buon lavoro.
Alberto Damilano

La medicina siamo noi


Ammalandomi sono finalmente passato dall’altra parte della scrivania. E ho potuto rendermi conto di quello che ho sempre saputo. Che per rendersi conto davvero bisogna esserci dentro. A cominciare dal fatto che il nostro sistema sanitario è ancora lontano dal realizzare ciò su cui a parole son tutti d’accordo: che si deve trattare la persona nella sua totalità, che la medicina si deve umanizzare, che la cura deve essere continua, dall’ospedale al domicilio del malato. Non è così, non ancora.
La cultura prevalente è ancora quella che vede il paziente come una macchina fatta di pezzi da riparare, e la cura come la somma di singole prestazioni. Per capire come funziona davvero la medicina non serve essere medici, né leggere le relazioni dei convegni o i documenti degli assessori.
Per capirlo, ci si deve ammalare.

Non è vero che non esistono più le mezze stagioni. La malattia è una tipica mezza stagione, a metà tra la vita e la morte.
Intristisce, perché è presagio di morte. Ma le filosofie orientali ci vengono in soccorso, aiutandoci a capire che tutto è uno, vita e morte, salute e malattia sono una cosa sola, due facce della stessa moneta. Come non può darsi piacere senza dolore, non ci può essere il giorno senza la notte ed estate senza inverno, così non può esserci salute senza malattia. Tentando di esorcizzare la malattia, si finisce con l’ammalarsi prima del tempo.

Il primo sentimento con cui ho dovuto fare i conti non è stata la paura e neanche la rabbia. E’ stata la vergogna. La prospettiva di diventare completamente paralizzato, di dover dipendere totalmente dagli altri, dovermi far lavare, vestire, imboccare, non poter più parlare, non mi faceva sentire più una persona. Pensavo agli sguardi pietosi di chi avrebbe visto solo più un povero disabile.
Chi si ammala deve saperlo: noi non siamo la nostra malattia, nessun deficit può annullarci. Noi restiamo sempre noi stessi.