Genova per noi


Ho pubblicato la testimonianza di Roberto, che a Genova, nel 2001, c'è stato, perchè mi è sempre parsa intollerabile e inquietante la violenza, soprattutto se esercitata dal potere verso cittadini inermi. So bene che a Genova una minoranza violenta c'è andata per portare lo scontro e provocare la repressione. Ma, in quei giorni, l'apparato dello stato ha operato per impedire qualunque forma di dissenso,, aggredendo cittadini pacifici, costruendo false prove per reprimere e squalificare un movimento democratico.
Quando lo stato diventa un pericolo per l'incolumità e la sicurezza degli stessi cittadini che dovrebbe difendere, la democrazia è sospesa, come è stato affermato giustamente dalle sentenze giudiziarie.
Personalmente, ho sempre accolto con disagio e fastidio le campagne volte a trasformare il povero Carlo Giuliani in un martire ed un eroe. Non c'è nulla di eroico nel dare l'assalto ad una camionetta con un estintore.
Roberto, invece, e altre migliaia di persone come lui, è un ex-ragazzo pacifico che crede nella democrazia, è un caro amico, oltre che un serio professionista. Ogni volta che parla di quella giornata gli si inumidiscono gli occhi. Quel giorno è stato all'inferno. Ed ha avuto paura di non poter ritornare.

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Genova 2001: un compleanno da ricordare

di Roberto Nanetti

Non sarò affatto conciso, non ci riesco.
Sabato 21 luglio.
Ore 8: partiamo da Torino, io mia moglie ed alcuni amici aderenti al Torino Social Forum; come noi partono quelli della Rete di Lilliput, di Mani Tese, di Rifondazione, del WWF. In largo Brescia ci saranno almeno una quarantina
di pullman. Siamo ancora sgomenti per gli eventi del giorno precedente.
Ore10.00 circa: pausa idrica all'aperto in autostrada. Troppo emozionato e anche un po’ vergognoso. Non riesco a far niente.
Ore 11 circa: Al casello di Genova Nervi: coda. Ci si aspetta una perquisizione che invece non avviene. Nuova coda in corso Europa. In senso opposto scorre una colonna di almeno dieci cellulari della polizia, stipati di militi, ognuno sormontato da un poliziotto con relativo fucile lancia-lacrimogeni. Rimango raggelato o forse mi sono soltanto perso gli ultimi mesi di questa realtà genovese.
Mezzogiorno circa: decidiamo come gli altri manifestanti di scendere dal pullman e proseguire a piedi verso il punto del concentramento. I Genovesi non ci sembrano ostili malgrado l’ennesima invasione.
Passiamo accanto al centro di accoglienza dell’ex ospedale psichiatrico; mi sorprende l’ordine attorno alle tende, non un sacchetto né un materassino o sacco a pelo.
Dai balconi qualcuno ci applaude, il corteo risponde festoso.
L’una circa: raggiungiamo Sturla: folla enorme e variegata. Ammiro con invidia certe acconciature coloratissime. D’accordo con gli altri del gruppo decidiamo di risalire il corteo alla ricerca dello striscione del Torino Social Forum. Dopo circa mezz’ora li perdiamo e rimaniamo in quattro, io Patrizia, Caterina e Fabio risaliamo ancora il corteo lungo corso Cavallotti alla ricerca di qualche gruppo conosciuto cui poterci aggregare. Troviamo un’amica delle Donne In Nero e veniamo accolti nel loro gruppo. In una traversa intravedo a molta distanza da noi un gruppo con i caschi azzurri, ma saranno a circa 500 metri! Lungo il percorso non ne abbiamo trovati e non ne troveremo altri. Ci accompagna l’inquietante volo di due o più elicotteri che forse ci stanno riprendendo; saluto di rito.
Ore 14.00 circa: davanti alla chiesa di Boccadasse un pullman a due piani di tipo londinese di quelli di DROP THE DEBT: ballano sul tetto.
Ore 14.30 : incontriamo fortunosamente A. che per quelli di UN PONTE PER… sta distribuendo datteri iracheni. Ci abbracciamo, siamo emozionati, mi racconta di una brutta disavventura capitatagli al mattino, ma questa è un’altra storia o forse fa sempre parte della stessa ? Ci salutiamo con la promessa di reincontrarci…non accadrà.
Ore 15.00: il corteo staziona sul lungomare, siamo a fianco di un muro con cartello di LIMITE INVALICABILE, vetri rotti a terra. In alto sul terrazzo dell’edificio interno scorgo alcune persone: uno mi sembra in borghese con in testa un casco azzurro, gli altri vestiti di nero con un copricapo nero.
Un’anziana signora esce da una finestra di una casa vicina, ci applaude.
Alcuni hanno messo a disposizione un tubo per l’acqua dal giardino, molti cercano refrigerio. Fa un caldo terribile! Ma tutto va bene; il gruppo che ci precede balla a ritmo di samba.
Ore15.20: Ripartiamo. Qualcuno ha sentito tramite telefonino che in piazza Kennedy sono in corso violenti scontri. Sappiamo di dover passare lì vicino. Primi segnali di nervosismo. Tutti i gruppi, compreso il nostro, dispongono un doppio cordone sui lati per evitare infiltrazioni di
qualsiasi tipo.
Ore 15.30: il corteo si arresta; sulla sinistra , oltre gli alberi, c’è il mare, sulla destra c’è un muro di pietre al disopra del quale mi sembra di percepire la presenza di un giardino. Oltre la testa , non molto distante, si vede il fumo dei lacrimogeni; davanti scorgo le bandiere dei VERDI.
Dietro c’è uno spezzone di RIFONDAZIONE di Napoli (?). Scorgo diverse persone con le magliette della Rete di Lilliput.
Momenti di tensione: alcuni urlano di sedersi a terra per poter evitare pericolose fughe indietro, altri consigliano di indietreggiare di un passo, altri ancora di avanzare. Siamo costretti a stare seduti sul marciapiede di destra, contro il muro, alzando le mani in segno di PACE. Ci alziamo sempre con le mani alzate. Alterniamo momenti in piedi ad altri seduti.
Ore 16.00 circa: SI SCATENA LA FOLLIA! Il fumo dei lacrimogeni si fa più vicino. Vedo qualcosa con una scia che arriva dal giardino sopra di noi spremo il limone sul fazzoletto, così a mia moglie P.. Arrivano altri lacrimogeni più in basso la gente scappa all’indietro veniamo schiacciati e bloccati contro il muro ho paura di essere schiacciato come negli stadi ho
paura per C. che è più piccola di noi e scompare. Il fumo mi prende gli occhi e la gola limone limone limone sul fazzoletto su quello di P. sugli occhiali di F. Funziona non soffoco più la folla in fuga mi schiaccia un po’ di meno.
SENTO QUALCOSA BATTERE RITMICAMENTE CHE SI AVVICINA!
Ci troviamo di fronte della gente con scudi e manganelli urlano cose che non capisco dietro le loro maschere. Abbiamo tutti le braccia alzate gridando continuamente PACE PACE. Mi arriva il primo colpo su un fianco cado per terra cerco di ripararmi la testa con le braccia alzate sento
dolore intenso al polso destro mi butto verso P. cerco di ripararle la testa prendo un altro colpo sulla mano mi sembra meno forte meno male!
Quell’uomo è mancino, impugna il manganello con la mano sinistra e tiene lo scudo con la destra, mi colpisce soprattutto sul lato destro. Da qualche parte sento che stanno pestando F. PACE AAHIA… MA PACE , CAZZO!
Quell’uomoverde continua mi prende a calci a terra sento un dolore fortissimo dietro al ginocchio destro mi brucia, fino alle palle.
Ha la tuta grigioverde, sul petto porta due strisce dorate, su una sta scritto GUARDIA DI FINANZA; su quella sulla sua sinistra c'è qualcosa in inglese come ANTITERRORISM NUCLEUS o GROUP o altro di simile. Sul casco verde c’è un’aquila gialla, mi sembra. Continua ad urlare come un orco non so se parla in italiano…fa cenno di picchiarmi ancora. Si intromette
qualcuno senza casco, pelato, in camicia chiara con le stelle una due tante stelle, dice BASTA….. l’interruttore: due posizioni VAI PICCHIA/STOP FERMATI.
Minacciosamente qualcuno mi fa cenno di alzarmi, urlano. P. vicino a me PIANGE GRIDA BASTA BASTA PERCHE’ CONTINUI, COSA TI HO FATTO IO?
In piedi con le braccia alzate iniziamo a camminare, continuiamo a dire PACE a chiunque, PACE, PACE… paceuncazzo, mentre cammina P. prende una manganellata sulla coscia destra da un altro orco verde senza maschera.
Mentre camminiamo dispensando pace, alla nostra destra arrivano velocissimi due blindati azzurri che si fermano affiancati al centro della strada.
Passiamo vicini ad un altro con manganello, con casco e interamente ricoperto da un’armatura di plastica nera; è altissimo. Non ha alcun segno di riconoscimento, né sull’armatura né sul casco. Non mi sembra abbia la maschera antigas eppure non vedo il chiaro del viso, non ne percepisco gli occhi. Si vedono soltanto spuntare strisce di tessuto nero sotto l’armatura che ricopre le cosce, forse una tuta sportiva con una scritta BIANCA ripetuta in sequenza in campo nero. Svoltiamo in corso Piave (?) e cerco di zittire una ragazza che urla BASTARDI, ho paura che ricomincino a picchiare. Ci seguono braccia alzate pace camminare pace pace; un’anziana
signora vicina a me continua a ripetere AIUTO HO PAURA MI SENTO MALE!
Qualcuno la porta via. C. incazzata si avvicina ad un signore in borghese con la pettorina blupolizia e incomincia a chiedergli ERAVAMO SEDUTI CON LE BRACCIA ALZATE, CI AVETE ATTACCATO, PERCHE’ ?
Lo sentiamo rispondere TANTO SIETE TUTTI DEI BOMBAROLI.
Porto via C. che insiste, il tipo si sta innervosendo. Riconosciamo degli amici che ci accolgono; ho male al polso destro, dietro il ginocchio destro ho una vasta ecchimosi, il pantalone è strappato in più punti. P. alza la gonna e scopre un’ecchimosi di circa dieci cm. sulla
coscia destra. F. ha due staffilate sull’avambraccio destro e una vasta ecchimosi sul cavo popliteo destro (amici anche in questo).
Un anziano signore ci spiega la strada più breve per raggiungere l’appuntamento con il pullman, vorrebbe ospitarci ma non vogliamo disturbarlo. Siamo distrutti fuori e dentro, ci sediamo sullo scalino del portone, ci abbracciamo E’ TUTTO FINITO, DAI!
Ore 16.45 circa: siamo in via Trento. Mezz’ora di apparente tranquillità.
Avvertiamo via telefono il capo pullman dell’accaduto e lo preghiamo di aspettarci.
Lì vicino c’è un cespuglio; mi vergogno un po’ ma …piscio, finalmente! E non smetto più, ma non basta.
Ore 17.00 circa: vediamo alcuni avvocati del GSF e qualche giornalista di CARTA, vorremmo denunciare l’accaduto ma hanno la nostra stessa faccia e non gli rompiamo le palle.
Ore17.30 circa: continuano a passare lividi, teste rotte, nasi sfasciati di tutte le età e tutti i colori. Salutiamo i compagni e proseguiamo lungo via Trento, al fondo troveremo via Tolemaide con l’appuntamento.
In rapida successione passano cinque cellulari blupolizia con rispettivo omino lanciagas incastonato sul tetto. Curva sgommate colpi sordi lacrimogeni. Ci risiamo, fermi. Svolta l’angolo, vedi ragazzini proni a terra con mani alzate, poliziotti sotto lo sguardo della pettorina blu responsabile del sillogismo MANIFESTANTI=BOMBAROLI mollano a casaccio calci sui fianchi o manganellate.
Scendi la scaletta, dai! Due macchine bruciate… Ma è via Tolemaide… e laggiù i nostri compagni di viaggio: ci medicano, ci abbracciano e io inizio a parlare e parlo parlo parlo e non smetto più, non riesco a smettere, non ci riesco.
Vorrei piangere, invece, ma il grilletto non riesce a scattare.
E parlo parlo, anche con un giornalista del Tg3 Piemonte, ma sono stanco e poco incisivo e poi tagliano anche un pezzo d’intervista. Ma siamo già a Torino, non te n’eri accorto? E poi domani rivedremo Anita, dai nonni; Anita che di lacrimogeno conosce solo la cipolla e che con i manganelli ha visto solo Arlecchino e Pulcinella e che quando le dici NON PASSARE DI LA , NON SI PUO’ ti chiede severa PERCHE’ ?
A proposito il 21 era il giorno del mio 40° compleanno, non è stata una bella festa e come regalo mi rimangono dei segni difficili da cancellare, dei grossi lividi sul corpo e nell’animo di Patrizia e il braccio ingessato del mio amico Fabio.
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Ho voluto inviarvi questo sfogo perché non riesco a sfogarmi per niente e voi mi capite. Potete farne ciò che riterrete più opportuno: come testimonianza, come lettera, come riempitivo, potete anche tagliuzzarla in tanti pezzi e inserirli qua a la quando meno te l’aspetti, ma VI PREGO, CREDETEMI E FATE IN MODO CHE MI CREDANO, PERCHE’ IO ANCORA FACCIO FATICA.
GRAZIE.
Settimo Torinese, 22 luglio 2001

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Vincere o morire: la metafora bellica nella Sla


L’aspetto forse più interessante che mi capita di incontrare, da ammalato che avvicina altri malati, è quello che oggi, con un termine entrato in voga persino in politica, si usa definire “la narrazione”. C’è una dimensione narrativa che veicola la comunicazione che circola intorno alla malattia, che, nel caso della Sla, potrebbe essere particolarmente ricca e complessa, attingendo a peculiarità proprie della malattia stessa. E invece così non è.
La domanda che mi sono posto è: qual è il rapporto dialettico che la narrazione intrattiene col piano di realtà, e quanto ciò corrisponde alla possibilità di comunicare davvero la condizione di tanti ammalati? La Sla, beninteso in quella che, semplificando, io chiamo la forma classica, cioè quella che è descritta in ogni testo di neurologia, offre, nella acuta tragicità della sua espressione, un terreno estremamente fecondo alla costruzione di una narrazione. Ora, quello che ho provato a chiedermi, in altre parole, è quanto la narrazione sia aderente ed utile a sostenere il piano di realtà, quello nel quale un malato terminale si guarda nudo allo specchio e decide se la sua è o sarà ancora una vita degna di essere vissuta.

La prima osservazione è che, nel considerare la malattia un unicum, la narrazione opera un primo, involontario esito confusivo, perché, pur nell’andamento anarchico della Sla, che fa quasi di ogni paziente un caso a sé, è tuttavia possibile riconoscere due grandi percorsi, e di conseguenza due vissuti, piuttosto nettamente distinguibili:
il primo è quello delle forme, tendenzialmente in crescita, in parallelo coll’affinamento della efficienza diagnostica, ad evoluzione lenta, che colpiscono per anni alcuni particolari e limitati distretti. Si tratta di ammalati spesso paraplegici, con limiti di espressione verbale, di alimentazione e di respirazione autonoma relativamente contenuti, ancora per anni parzialmente autosufficienti, che evolvono nello stadio più avanzato nell’arco di un periodo enormemente variabile, di 5, 10, raramente anche 15 anni, con periodi di sostanziale stabilizzazione a volte molto lunghi.
Il secondo è quello delle forme rapidamente evolutive, a prescindere dalle modalità di esordio, che giungono alla fase terminale nell’arco dei “classici” 2-3 anni. Capite bene che il vissuto, in questo caso, è radicalmente diverso. I peggioramenti sono quasi quotidiani, i sintomi e le condizioni di vita cambiano, in peggio, senza soluzione di continuità e l’angoscia di morte, di invalidità totale, di totale dipendenza da altri, di restringimento del campo di coscienza e la perdita di identità , pure presenti anche nei primi, toccano qui il vertice massimo di acuta sofferenza.

Questi sono i casi che colpiscono l’immaginario collettivo e su cui buona parte della narrazione si dispiega. Questa attenzione rivolta alle condizioni più gravi è importante per sensibilizzare sulla assoluta rilevanza delle condizioni cliniche e sociali del fenomeno, ma è viziata da un abuso di stereòtipi. Se si chiede ad un passante di raccontare quel che sa della Sla, il passante informato risponderà che è la malattia dei calciatori e poi dirà che ha presente Stefano Borgonovo, l’ex giocatore di Milan e Fiorentina.E, se proprio insistete, probabilmente vi restituirà lo stereotipo del malato di Sla come di un moderno guerriero, un ex supereroe che, come il Lou Gehrig dell’”Idolo delle folle”, ha perso le doti del campione sportivo, o i superpoteri , per colpa di un destino atroce che, un po’ come la kriptonite verde per Superman, lo sta uccidendo. Ora, lo schema della narrazione è che il guerriero è un eroe moderno che ha scelto di ingaggiare col drago la sua quotidiana, mortale battaglia per la vita, ha aperto una fondazione e sostiene la ricerca per trovare l’antidoto della kriptonite, che guarirà i malati ed estirperà il male.
Ecco, questa è la narrazione che passa della Sla, ripetendosi tale e quale, come un clone, in tutte le storie individuali, anche di ordinaria disperazione, che sempre più spesso bucano lo schermo televisivo. Di solito c’è un malato , o un suo familiare, che combatte il destino, la malattia e l’indifferenza della società, e, appena si affranca dal bisogno più urgente, fonda un’associazione e raccoglie fondi per la ricerca. Ora, sia chiaro, Stefano Borgonovo svolge un’opera altamente meritoria. Il problema è l’immaginario collettivo, che, per sua natura, si nutre di miti e non va tanto per il sottile.
Ora, si può dire che questo impianto condizioni non poco i comportamenti di noi malati di Sla, soprattutto di quella minoranza, direi l’avanguardia combattiva per assecondare la narrazione, che fa della propria battaglia un fatto pubblico, compreso il sottoscritto.
Faccio qualche esempio per spiegarmi. Pochi giorni fa, si è svolto a Roma l’annuale raduno degli “Slaleoni”, che ruggiscono anche se non hanno voce, c'è chi intraprende la carriera musicale al grido di “nessuno alzerà bandiera bianca”, c’era chi teneva un blog definendosi rainbow warrior, “guerriero dell’arcobaleno”. Sarà forse per questo che, ogni volta che si presentano di fronte alla sede di un ministero, tetraplegici in lettiga e respiratore vengono regolarmente accolti da agenti in assetto antisommossa.
A parte gli scherzi, anche la fraseologia comune delle relazioni interpersonali opera un continuo, costante richiamo a scenari bellicosi. Un discreto campionario è disponibile in rete, sia nei post personali sui social network, sia nei vari forum dei malati. I due vocaboli in assoluto più utilizzati sono: combattere e non arrendersi.

Probabilmente la metafora più fedele a ciò che accade quando una famiglia si ammala di Sla, in realtà, dovrebbe essere quella del sisma. Parlo di famiglia ammalata, perché questa malattia è un terremoto che non colpisce solo il paziente, ma l’intera famiglia, lesiona gravemente i muri portanti della casa e, spesso, ne provoca il crollo. La grande differenza, rispetto al terremoto, è che qui le scosse successive, anziché essere di assestamento, sono via via sempre più gravi. La ragione della marginalità di questa immagine, sta probabilmente nella volatilità di un evento naturale come interprete della figura del nemico. In uno scenario di guerra c’è il nemico come impersonificazione del male.
Accettando comunque come compatibile lo scenario bellico, dal momento che il vissuto è quello di una continua progressione che non dà tregua e che costringe l’ammalato ad un lavoro di riposizionamento continuo, se fosse una guerra, si tratterebbe di una guerra di posizione, con il fronte nemico ad avannzare di qualche metro ogni giorno e le linee alleate costrette ad arretrare di conseguenza.

Proviamo ora a fare una rapida incursione al piano di realtà. Quello di cui troppo spesso non si tiene conto è che una persona affetta da Sla presenta un elemento peculiare e aggiuntivo rispetto ad altre malattie altamente invalidanti: non sono solo in gioco, per la sopravvivenza , l’alimentazione e l’idratazione forzate, ma anche e soprattutto la ventilazione invasiva. Ben più del tubicino della PEG nello stomaco è infatti il tubo della tracheostomia la cruna dell’ago dell’intero percorso. Una cruna dell’ago attraverso la quale ad ognuno di noi viene chiesto, prima o poi, se intendiamo passare.
Ebbene, secondo stime ragionevoli, in Italia, di Sla si ammalano non meno di 1000 persone ogni anno. Di queste, oltre l’80% non dà il proprio consenso informato alla tracheostomia e, di fatto, si lascia morire. E dare o meno il consenso all’intervento rappresenta il vero e proprio spartiacque, perché accettarlo significa decidere di convertire la storia naturale di una malattia che molto spesso è ad esito rapidamente infausto, trasformandola in una malattia cronica, con una speranza di sopravvivenza anche assai prolungata negli anni. Questo aspetto cambia radicalmente il paradigma della narrazione, o meglio, opera uno scarto paradigmatico, perché richiederebbe che la narrazione, per essere anche utile, oltre che bella, contemplasse al proprio interno questo aspetto determinante e discriminante: che la battaglia non significa semplicemente vincere o morire, ma che soprattutto la vittoria non comporta la restitùtio ad integrum, ma l’accettazione della convivenza, vita natural durante, con un grado estremo di invalidità permanente.
Vivere per anni completamente immobile, con la conservazione , purtroppo neppure sempre, dei soli movimenti degli occhi e della lucidità della mente, è radicalmente altra cosa.

Restando sul piano proposto, dopo la fase della guerra di posizione, l’immagine che, semmai, meglio può coglierne il vissuto, è quella di una vita costretta nei confini ristretti della patria/casa, alla presenza di un esercito di occupazione contro il quale, non essendo possibile la battaglia in campo aperto, ci si deve attrezzare , malato e famiglia, ad una lunga guerra di resistenza. Infatti un malato di Sla non autosufficiente, già prima di essere tracheostomizzato, ha bisogno di sorveglianza ed assistenza esperta 24 ore su 24. La narrazione non ci racconta che, nella realtà, mogli, mariti, genitori e figli, sono costretti a lasciare il lavoro, a non uscire più di casa, a non sapere come affrontare le spese, a doversi, addirittura, accollare la responsabilità di manovre che salvano la vita nei momenti di crisi.
La realtà di almeno il 30% dei 5000 malati di Sla stimati nel nostro paese richiama assai di più un romanzo familiare di questo tipo, piuttosto che il clichè romantico dell’eroe guerriero.
Un efficace sistema di continuità assistenziale a domicilio, in questi casi, diventa l’equivalente di un farmaco salvavita. E la prima linea del piccolo esercito di resistenza, è rappresentato dagli assistenti familiari, quelli che già nella realtà le famiglie assumono e formano a proprie spese. Attrezzarsi, perciò, ad un lungo periodo di resistenza, se tradotto nel quotidiano, non può prescindere dall’acquisizione, per il malato e la famiglia, di quelle armi, o di quella cassetta degli attrezzi, che comprenda una rete di assistenza domiciliare degna di questo nome.
E la narrazione, forse, acquisendo allora un maggior legame con la realtà, aiuterebbe noi tutti a sentirci maggiormente presi in cura dalle storie che parlano di noi.

Tratto dalla relazione presentata al Corso di aggiornamento sulla Sla, tenutosi a Novara il 27-28 maggio 2011.

Foto n.1: Salvatore Usala, per gentile concessione di Alessandro Grassani photographer-Luz Photo Agency.


Dopo la tracheostomia


Carissimi,
sono commosso dalle attestazioni di stima e affetto. Non sono un gladiatore, nè un guerriero, sono solo un piccolo uomo che ci tiene a sfangare questa piccola vita con un po' di dignità. Ci vuole coraggio a continuare a vivere in queste condizioni, ma ce ne vuole altrettanto a decidere di lasciarsi morire. Ognuno affronta questo passaggio come può. Tutte le scelte sono degne. In tutto ciò ho una fortuna: di avere accanto una donna straordinaria, Francesca.
Traggo forza da chi ha fatto la tracheo prima di me, augurandomi che, se non se n'è pentito, è perchè una qualità di vita accettabile è possibile. Se dovessi limitarmi a come mi sento da 24 giorni in qua, dovrei dire, con tutta sincerità, che qualche dubbio mi è venuto, sulla bontà di questa scelta. Non è dura, è durissima. La cosa che mi è più intollerabile è essere costretto dai problemi fisici ad essere concentrato 24 ore su 24 su nient'altro che la malattia. Ieri, per la prima volta, ho trovato la forza per farmi mettere sulla sedia a rotelle e mettere il naso, per un'ora, fuori di casa. Il sole sulla pelle non ricordavo più che meravigliosa sensazione fosse.
In tutto questo, sentirvi vicini e partecipi mi sta aiutando, non poco.
Vi voglio bene.

24 giugno 2011