Ammalandomi sono finalmente passato dall’altra parte della scrivania. E ho potuto rendermi conto di quello che ho sempre saputo. Che per rendersi conto davvero bisogna esserci dentro. A cominciare dal fatto che il nostro sistema sanitario è ancora lontano dal realizzare ciò su cui a parole son tutti d’accordo: che si deve trattare la persona nella sua totalità, che la medicina si deve umanizzare, che la cura deve essere continua, dall’ospedale al domicilio del malato. Non è così, non ancora.
La cultura prevalente è ancora quella che vede il paziente come una macchina fatta di pezzi da riparare, e la cura come la somma di singole prestazioni. Per capire come funziona davvero la medicina non serve essere medici, né leggere le relazioni dei convegni o i documenti degli assessori.
Per capirlo, ci si deve ammalare.
Non è vero che non esistono più le mezze stagioni. La malattia è una tipica mezza stagione, a metà tra la vita e la morte.
Intristisce, perché è presagio di morte. Ma le filosofie orientali ci vengono in soccorso, aiutandoci a capire che tutto è uno, vita e morte, salute e malattia sono una cosa sola, due facce della stessa moneta. Come non può darsi piacere senza dolore, non ci può essere il giorno senza la notte ed estate senza inverno, così non può esserci salute senza malattia. Tentando di esorcizzare la malattia, si finisce con l’ammalarsi prima del tempo.
Il primo sentimento con cui ho dovuto fare i conti non è stata la paura e neanche la rabbia. E’ stata la vergogna. La prospettiva di diventare completamente paralizzato, di dover dipendere totalmente dagli altri, dovermi far lavare, vestire, imboccare, non poter più parlare, non mi faceva sentire più una persona. Pensavo agli sguardi pietosi di chi avrebbe visto solo più un povero disabile.
Chi si ammala deve saperlo: noi non siamo la nostra malattia, nessun deficit può annullarci. Noi restiamo sempre noi stessi.
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