Le prigioni senza sbarre


Quello che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla
(Lao Tse)



Cos’hanno in comune le privazioni imposte da una grave malattia invalidante e quelle derivanti dalla carcerazione, tanto più quando ingiusta? Per le malattie mi riferisco, in particolare, a quelle gravissime patologie che coinvolgono il sistema neuromuscolare, come la sclerosi laterale amiotrofica, oppure ai gravi traumatismi cranio-encefalici e alla sindrome locked-in (che significa per l’appunto “incarcerato”): tutte situazioni nelle quali l’esito finale, anche grazie alla avanzata tecnologia medica, è che il carceriere ha gettato la chiave e il destino è quello di restare prigionieri del proprio corpo per il resto della vita.
E ancora: come si può continuare ad esplorare la categoria del possibile quando le possibilità dell’esperienza vengono ad essere drasticamente ridotte?
Queste domande mi sono balzate in mente leggendo un bel lavoro di qualche anno fa di Susanna Terracini, matematica , che recuperava le lettere che Ernesto Rossi scrisse, prima dal carcere fascista e poi dal confino, e ne rievocava l’incontro, sempre in carcere, con Vittorio Foa, economista, ma soprattutto padre nobile della sinistra del ‘900 (e anche un po’ oltre). E conteneva anche una bella intervista allo stesso Foa.

Ernesto Rossi, antifascista laico, fondatore di Giustizia e Libertà, viene condannato, in ragione delle sue idee, a vent’anni di carcere dal Tribunale speciale fascista; di questi, complessivamente, nove li trascorre effettivamente in prigione e quattro al confino. Lungo tutti questi lunghi anni Rossi “inganna” il tempo non solo nell’incessante organizzazione di tentativi di evasione, ma soprattutto nel costante esercizio della matematica, attività intellettuale di astrazione per eccellenza. E, appare evidente, lo fa non come pura coltivazione di una passione individuale, ma come affermazione di continuità di sé, della propria identità e della dignità di persona.
Senza scomodare l’esperienza di un Primo Levi nel campo di sterminio, anche la vicenda umana di Ernesto Rossi, certamente meno estrema, suggerisce che la persona è innanzitutto tale se le è concesso di coltivare la propria ricerca di senso ed esporla al confronto con “l’altro”.
Già nel 1931, nel carcere di Piacenza, Rossi ottiene gesso e lavagna e si butta, infatti, nello studio collettivo, insieme con una improbabile truppa di ferrovieri e contadini, anarchici e comunisti, non tutte e sempre “teste fini” dal punto di vista del livello intellettuale. Ma che importa, la passione e la creatività della condivisione nell’esercizio della matematica rivelano la potenza straordinaria propria di un gesto artistico collettivo. E già questo è sorprendente, perché non vi è nulla di apparentemente più logico e rigoroso, e, mi verrebbe forse da pensare, rigido, del metodo matematico.

Rossi legge anche Poincarè, il matematico e filosofo francese che formulò la celebre “congettura”, problema matematico di straordinaria complessità, tanto da dover attendere oltre un secolo per essere dimostrato. E mi viene in mente di un altro spericolato accostamento che lessi circa Poincarè, che associava la sua congettura alla ipotesi matematica della struttura dell’universo, rendendo addomesticabile concettualmente qualcosa di altrimenti incontenibile dalla mente umana: la stessa struttura finita eppure al tempo stesso infinita che si ritrova, sorprendentemente, nell’architettura del Paradiso dantesco.
Ecco: privati della libertà, nel punto più alto della storia del ventennio, c’erano antifascisti che teorizzavano di “infinitesimi di ordine diverso che tendono a zero uno più rapidamente dell’altro”. Fantastico.

A Regina Coeli, dopo l’ennesimo trasferimento a seguito dell’ennesimo piano di evasione fallito, Rossi riprende con i nuovi compagni, in prima fila Riccardo Bauer e successivamente Vittorio Foa, a lavorare su bazzecole come teoria delle congruenze, teoria dei determinanti, equazioni lineari e calcolo infinitesimale. L’accanimento con cui questo manipolo di antifascisti tenta ripetutamente di poter mettere per scritto i passaggi matematici, nel divieto assoluto di farlo, dà l’idea di una autentica lotta per la sopravvivenza: a ogni sequestro di “armi improprie” seguiva una nuova invenzione. Dai bastoncini di sapone ai fiammiferi di legno mischiati con la cera, dalle scaglie di piombo delle inferriate al gesso del lucignolo dei lumini, tutto pur di poter surrogare penna e calamaio.

E ho pensato allora a come è difficile continuare a percepirsi persona, nella pienezza del rapporto con gli altri, quando vengono meno la libertà di movimento, la libertà di scegliersi i propri interlocutori e di comunicare con loro. E qui nasce l’idea dello spericolato parallelismo: la paralisi della libertà nel corso di una restrizione fisica imposta dal potere non è in fondo dissimile a ciò che accade quando è la natura a imporre le limitazioni di una paralisi motoria che costringe il corpo dentro una prigione senza sbarre.
Il disperato tentativo di un malato che può solo più muovere gli occhi, alla ricerca del non annullamento di sé entro i confini della minorazione, mi appare altrettanto forte dello sforzo del prigioniero di un regime totalitario per conservare la propria integrità senza alienarla in mani altrui.

Racconta Foa: in carcere, si cerca di avere degli orizzonti più aperti perché il carcere è uno strumento con il quale, tenendoti chiuso, si cerca di limitare la tua stessa mente, inchiodarla al presente, a quella astratta aridità che ha la vita in una cella. Noi eravamo impediti di scrivere. Non potevamo scrivere a nessun altro che a padre e madre, una volta alla settimana. Non potevamo sentire musica di nessun tipo. Non potevamo nemmeno cantare nulla. Si cercava di limitare la nostra stessa mente e indubbiamente la Matematica per me ha avuto questa capacità: di rompere la chiusura e di arrivare a qualcos’altro. Ancora recentemente, parlando di queste cose con un amico, ricordavo che durante tutti gli anni del carcere non ho mai letto delle poesie e spiegavo come questa mancanza abbia impoverito la mia vita, non solo allora ma anche dopo. E lui mi disse: “È vero, ma hai studiato Matematica!” Ed è vero. Lo studiare Matematica permetteva improvvisamente di uscire in un campo in cui il tuo persecutore non entrava – questo campo non lo interessava – in cui tu potevi muoverti a tuo agio, senza che lui sapesse né si interessasse di quello che facevi.

Le stesse parole potrebbero essere pronunciate da un distrofico o da un ammalato di Sla, se riferite alla frequente, acquisita abitudine di scrivere poesie, memorie, racconti e romanzi mai scritti prima. Il bruco si libera dallo scafandro sublimando se stesso, erigendo difese dall’alienazione di sé e costruendo ponti per poter comunicare con gli altri. Per dirla con Foa: si esce in un campo in cui il tuo persecutore, la malattia, onnipresente e pervasiva nel suo oggettivo intento di annientamento, non può entrare. Diventa davvero questione di vita o di morte: si giunge a temere, più ancora che una crisi respiratoria, il blocco del proprio comunicatore oculare. Ad ogni interruzione dell’ADSL e ad ogni guasto del personal computer si viene assaliti dall’angoscia che comporre, scrivere e comunicare possano essere negati per sempre.
L’irrompere di una malattia catastrofica pone drammaticamente, in pari con l’avvenuta consapevolezza, il nodo della identità e dell’immagine di sé perdute. Uscirne è tutt’uno con il rifiuto di identificarsi con la malattia stessa, con il recupero di sé come persona attraverso le proprie intatte facoltà mentali, la scoperta di attitudini inesplorate, la passione verso territori di creatività intellettuale e di impegno ai quali, con sorpresa, ci si ritrova ad affidare il senso non solo di una nuova esperienza, ma, in questo caso, di una nuova fase della propria vita.

Disse Cesarina Vighy, divenuta scrittrice solo dopo essersi ammalata di Sla:
Scrivo e scrivo, con una facilità e una felicità mai provate prima: quasi ho dimenticato la sfida a resistere per riversare nel mio libro quello che mi è capitato nella vita di bello e di brutto, entro ed esco dalla malattia come un fantasma attraversa i muri, beffando chi si ferma davanti a una porta chiusa. Ho qualcosa di meglio da fare, io: recuperare la mia vita che sembrava ormai spezzata in due tronconi, prima della malattia e dopo la malattia. Solo ora ho scoperto che ci si può stare anche "dentro", profittando di quel dono avvelenato che ci hanno fatto: mantenere la mente lucida, forse più lucida di prima, sino alla fine. Via il pigiama, lavarsi o farsi lavare, vestirsi o farsi vestire: è un viaggio che ci aspetta, lungo o corto che sia. I miracoli li facciamo noi.

Il senso della lotta contro la segregazione del carcere può assomigliare a quella che si ingaggia contro il sequestro del corpo, ed è ancora Foa a rendercela evidente:
Direi che è una cosa un po' analoga ad una lotta sociale o politica. Uno pensa che una lotta sociale o politica serva a cambiare qualcosa. Però serve anche in sé. Il lottare cambia te stesso nel momento in cui lotti, non soltanto pensando ai risultati di questa lotta. A me pareva allora che il calcolo matematico, che può servire a tante cose, serviva a noi che lo facevamo. Il fatto di calcolare è in se stesso un fatto di emancipazione.

Per una volta, non è la libertà ad essere terapeutica, ma è la cura di sé che rende liberi.



Bibliografia utile:
Susanna Terracini - Matematica e liberazione, in Lettera matematica n.60/2006, pp. 39-50
Donal O’Shea – La congettura di Poincarè - BUR, 2008
Jean-Dominique Bauby - Lo scafandro e la farfalla - Ponte alle grazie, 1997
Cesarina Vighy – L’ultima estate - Fazi, 2009


1 commento:

  1. ciao Alberto, sono con te e credo di poterti capire, è vero la cura di sè rende liberi

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