Vince premi, ma nessuno lo può vedere. Così scrivevo a febbraio:
Questo è un invito ad una caccia al tesoro.
C’è un grande film che sta girando nelle sale italiane, ma bisogna essere più tenaci di un giocatore di gratta e vinci per indovinare data, città e cinema giusto.
Nell’Italia usa e getta di oggi, priva di memoria civile prima che storica, un regista indipendente come Giorgio Diritti ha svolto un lavoro di ricerca degno di un Ermanno Olmi (ma, a differenza di Olmi, assolutamente non palloso) e poi ha girato un film con la ormai consueta maestria nel dirigere attori e nel trasformare in attori gente comune. E, in ultimo, è stato costretto a consegnarsi alle regole delle lotterie per sperare che pochi, baciati dalla fortuna, possano godere della sua opera. E, si sa per esperienza, chi si affida alle lotterie ha perso in partenza.
Diritti infatti potrebbe essere un regista di successo e non lo è, così va il mondo. Ha lavorato molto con Pupi Avati, è bolognese come lui e ha firmato cinque anni fa, producendolo rigorosamente in cooperativa e rischiando di suo, quell’altro capolavoro che è “Il vento fa il suo giro”, storia di mancata integrazione dello straniero nella profonda Val Maira occitana. Ha mietuto successi in tutto il mondo e da noi è rimasto a lungo in cartellone solo grazie al passaparola che ha riempito le sale. Un’opera prima folgorante.
E ora, come un eterno debuttante, senza promozione e distribuito nel numero di UNA copia per capoluogo di regione, si ripete con “L’uomo che verrà”, che al momento è un missing, un desaparecido, una meteora cui non resta di nuovo che affidarsi al passa parola per essere avvistata.
Settembre 1944. Monte Sole, 30 km. a sud di Bologna. La vita contadina in una campagna boscosa e aspra, mezzadri poveri nell'Italia occupata dai nazisti, ribelli male organizzati e cittadini in fuga dai bombardamenti. E’ un mondo osservato con muta partecipazione da una bambina di 8 anni. Un dialetto perfetto come una lingua (con sottotitoli che dopo un po’ te li scordi) per l'eccidio che passerà alla storia come la strage di Marzabotto. Ma la strage non è il vero cuore del film, l’essenza sono la banalità del male e l'innocenza di un'Italia che non c'è più, l’invenzione di un modo di raccontare lineare e fresco, nuovo dopo l’avvenuta certificazione di morte delle ideologie.
C’è dentro tutto: la famiglia, il lavoro, l’identità e la dignità di un popolo e di una classe sociale, senza ombra di retorica alcuna. E le speranze di rinascita, indomabili e ogni volta tradite. Un film per molte ragioni attualissimo e bello, che emoziona con leggerezza, a dispetto delle ambizioni che avrebbero potuto renderlo indigesto.
Per questo vi consiglio, ribellatevi per una volta ai cinepanettoni e giocate alla caccia al tesoro. Cercate questo film e, se lo trovate, coglietelo al volo, non ve ne pentirete.
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