Il lavoro rende liberi


Mariarca Terracciano, l’infermiera di Napoli, è morta dopo essersi dissanguata, e poco importa stabilire se clinicamente questo esito sia stato, o meno, conseguenza diretta di quel gesto. Chiedeva di vedere rispettato il diritto a ricevere lo stipendio e per essere ascoltata si è pubblicamente svenata un po’ ogni giorno. Ha vinto la sua lotta, ma a costo della vita.
Lo stato agonizzante di una sanità, che si è fatta terreno di conquista degli interessi privati più feroci (6 miliardi di € di deficit, finiti interamente nelle tasche degli speculatori), e che da anni uccide i pazienti che ad essa si affidano, da oggi ha iniziato a giustiziare anche gli infermieri, lasciati senza stipendio, soli e isolati, alle prese con famiglia da mantenere e mutuo da pagare.
Lavoro, casa, istruzione e salute smettono di essere un diritto della persona, da conquistare e difendere collettivamente, e vengono anch’essi privatizzati: la lotta per i diritti è stata ormai derubricata a fatto personale, che solo gesti estremi, segnati dalla disperazione, possono sperare di riscattare.
Ha scritto Adriano Sofri, a proposito del moderno schiavismo dei call center, dove giovani laureati lavorano 13 ore al giorno per 6 € l’ora, in nero, e se alzano la testa vengono sottoposti a pene corporali, che le moderne schiere di precari vendono la propria forza lavoro senza nemmeno pensare di poter avere dei diritti. Né più né meno come gli immigrati, reclutati dai caporali per 20 € al giorno.

A partire dalle decine di impiegati suicidi della Telecom France, passando per le tragedie familiari dei lavoratori licenziati e dei piccoli imprenditori che falliscono e che trascinano con sé moglie e figli prima di rivolgere l’arma contro se stessi, per finire, perdonate l’autocitazione, con i malati di SLA che rischiano il corpo già disfatto con lo sciopero della fame, credo che nel mondo occidentale avanzato si sia entrati in una fase nuova di quello che una volta si sarebbe chiamato “il manifestarsi delle contraddizioni del sistema”. Per non parlare del sistema stesso, che da tre anni è entrato in crisi economica globale e sta spalmandone le conseguenze buttando sul lastrico mezza Europa. La Grecia non è che l’inizio.
Qualcuno ha detto che uno degli elementi determinanti per il trionfo del neoliberismo, è stato l’assorbimento del sindacato nella concertazione perpetua, dove l’oggetto del contendere non è, di volta in volta, chissà quale conquista, ma solo la quota di diritti da cedere: io ti propongo il 50% e tu sindacato ti batti per limitarla al 30%, e se ce la fai hai chiuso una trattativa soddisfacente, insomma hai vinto.
Un altro elemento è l’omologazione ai network della “visibilità”, l’inciviltà dell’immagine, quella per cui devi pubblicizzare la tua guerra privata su youtube e minacciare di venderti un rene alla “Prova del cuoco”. Se non riesci ad andare su internet e in televisione, sei fregato, non esisti.
Nelle assemblee di fabbrica, quando si cerca supporto alla lotta, anziché rivolgersi al sindacato, ormai squalificato e delegittimato, si vota per decidere se chiamare il Gabibbo o, in alternativa, Le Iene.

Così, a ben poco servono gli appelli, a volte sinceri a volte ipocriti, a non estremizzare le forme di lotta e a non rischiare la vita.
E se qualcuno avesse la tentazione di leggere quel che accade con categorie mediche, invocando depressione ed isteria, si dovrebbe rispondere che Schmidt e Benasayag, psichiatri, descrivendo il nostro tempo come “l’epoca delle passioni tristi”, hanno prescritto, come cura, la “terapia del legame”. Che, tradotto, vorrebbe dire riprendere un pensiero plurale, il “noi” e il senso di comunità, restituendo significato a parole tanto più vuote quanto ormai abusate: solidarietà e interessi comuni.
L’alternativa, in caso contrario, è continuare così, ognuno per sé, a fare i conti, giorno dopo giorno, con le proprie, privatissime disperazioni.

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