
L’aspetto forse più interessante che mi capita di incontrare, da ammalato che avvicina altri malati, è quello che oggi, con un termine entrato in voga persino in politica, si usa definire “la narrazione”.
C’è una dimensione narrativa che veicola la comunicazione che circola intorno alla malattia, che, nel caso della Sla, potrebbe essere particolarmente ricca e complessa, attingendo a peculiarità proprie della malattia stessa. E invece così non è.
La domanda che mi sono posto è: qual è il rapporto dialettico che la narrazione intrattiene col piano di realtà, e quanto ciò corrisponde alla possibilità di comunicare davvero la condizione di tanti ammalati? La Sla, beninteso in quella che, semplificando, io chiamo la forma classica, cioè quella che è descritta in ogni testo di neurologia, offre, nella acuta tragicità della sua espressione, un terreno estremamente fecondo alla costruzione di una narrazione. Ora, quello che ho provato a chiedermi, in altre parole, è quanto la narrazione sia aderente ed utile a sostenere il piano di realtà, quello nel quale un malato terminale si guarda nudo allo specchio e decide se la sua è o sarà ancora una vita degna di essere vissuta.
La prima osservazione è che, nel considerare la malattia un unicum, la narrazione opera un primo, involontario esito confusivo, perché, pur nell’andamento anarchico della Sla, che fa quasi di ogni paziente un caso a sé, è tuttavia possibile riconoscere due grandi percorsi, e di conseguenza due vissuti, piuttosto nettamente distinguibili:
il primo è quello delle forme, tendenzialmente in crescita, in parallelo coll’affinamento della efficienza diagnostica, ad evoluzione lenta, che colpiscono per anni alcuni particolari e limitati distretti. Si tratta di ammalati spesso paraplegici, con limiti di espressione verbale, di alimentazione e di respirazione autonoma relativamente contenuti, ancora per anni parzialmente autosufficienti, che evolvono nello stadio più avanzato nell’arco di un periodo enormemente variabile, di 5, 10, raramente anche 15 anni, con periodi di sostanziale stabilizzazione a volte molto lunghi.
Il secondo è quello delle forme rapidamente evolutive, a prescindere dalle modalità di esordio, che giungono alla fase terminale nell’arco dei “classici” 2-3 anni. Capite bene che il vissuto, in questo caso, è radicalmente diverso. I peggioramenti sono quasi quotidiani, i sintomi e le condizioni di vita cambiano, in peggio, senza soluzione di continuità e l’angoscia di morte, di invalidità totale, di totale dipendenza da altri, di restringimento del campo di coscienza e la perdita di identità , pure presenti anche nei primi, toccano qui il vertice massimo di acuta sofferenza.
Questi sono i casi che colpiscono l’immaginario collettivo e su cui buona parte della narrazione si dispiega. Questa attenzione rivolta alle condizioni più gravi è importante per sensibilizzare sulla assoluta rilevanza delle condizioni cliniche e sociali del fenomeno, ma è viziata da un abuso di stereòtipi. Se si chiede ad un passante di raccontare quel che sa della Sla, il passante informato risponderà che è la malattia dei calciatori e poi dirà che ha presente Stefano Borgonovo, l’ex giocatore di Milan e Fiorentina.E, se proprio insistete, probabilmente vi restituirà lo stereotipo del malato di Sla come di un moderno guerriero, un ex supereroe che, come il Lou Gehrig dell’”Idolo delle folle”, ha perso le doti del campione sportivo, o i superpoteri , per colpa di un destino atroce c

he, un po’ come la kriptonite verde per Superman, lo sta uccidendo. Ora, lo schema della narrazione è che il guerriero è un eroe moderno che ha scelto di ingaggiare col drago la sua quotidiana, mortale battaglia per la vita, ha aperto una fondazione e sostiene la ricerca per trovare l’antidoto della kriptonite, che guarirà i malati ed estirperà il male.
Ecco, questa è la narrazione che passa della Sla, ripetendosi tale e quale, come un clone, in tutte le storie individuali, anche di ordinaria disperazione, che sempre più spesso bucano lo schermo televisivo. Di solito c’è un malato , o un suo familiare, che combatte il destino, la malattia e l’indifferenza della società, e, appena si affranca dal bisogno più urgente, fonda un’associazione e raccoglie fondi per la ricerca. Ora, sia chiaro, Stefano Borgonovo svolge un’opera altamente meritoria. Il problema è l’immaginario collettivo, che, per sua natura, si nutre di miti e non va tanto per il sottile.
Ora, si può dire che questo impianto condizioni non poco i comportamenti di noi malati di Sla, soprattutto di quella minoranza, direi l’avanguardia combattiva per assecondare la narrazione, che fa della propria battaglia un fatto pubblico, compreso il sottoscritto.
Faccio qualche esempio per spiegarmi. Pochi giorni fa, si è svolto a Roma l’annuale raduno degli “Slaleoni”, che ruggiscono anche se non hanno voce, c'è chi intraprende la carriera musicale al grido di “nessuno alzerà bandiera bianca”, c’era chi teneva un blog definendosi rainbow warrior, “guerriero dell’arcobaleno”. Sarà forse per questo che, ogni volta che si presentano di fronte alla sede di un ministero, tetraplegici in lettiga e respiratore vengono regolarmente accolti da agenti in assetto antisommossa.
A parte gli scherzi, anche la fraseologia comune delle relazioni interpersonali opera un continuo, costante richiamo a scenari bellicosi. Un discreto campionario è disponibile in rete, sia nei post personali sui social network, sia nei vari forum dei malati. I due vocaboli in assoluto più utilizzati sono: combattere e non arrendersi.
Probabilmente la metafora più fedele a ciò che accade quando una famiglia si ammala di Sla, in realtà, dovrebbe essere quella del sisma. Parlo di famiglia ammalata, perché questa malattia è un terremoto che non colpisce solo il paziente, ma l’intera famiglia, lesiona gravemente i muri portanti della casa e, spesso, ne provoca il crollo. La grande differenza, rispetto al terremoto, è che qui le scosse successive, anziché essere di assestamento, sono via via sempre

più gravi. La ragione della marginalità di questa immagine, sta probabilmente nella volatilità di un evento naturale come interprete della figura del nemico. In uno scenario di guerra c’è il nemico come impersonificazione del male.
Accettando comunque come compatibile lo scenario bellico, dal momento che il vissuto è quello di una continua progressione che non dà tregua e che costringe l’ammalato ad un lavoro di riposizionamento continuo, se fosse una guerra, si tratterebbe di una guerra di posizione, con il fronte nemico ad avannzare di qualche metro ogni giorno e le linee alleate costrette ad arretrare di conseguenza.
Proviamo ora a fare una rapida incursione al piano di realtà. Quello di cui troppo spesso non si tiene conto è che una persona affetta da Sla presenta un elemento peculiare e aggiuntivo rispetto ad altre malattie altamente invalidanti: non sono solo in gioco, per la sopravvivenza , l’alimentazione e l’idratazione forzate, ma anche e soprattutto la ventilazione invasiva. Ben più del tubicino della PEG nello stomaco è infatti il tubo della tracheostomia la cruna dell’ago dell’intero percorso. Una cruna dell’ago attraverso la quale ad ognuno di noi viene chiesto, prima o poi, se intendiamo passare.
Ebbene, secondo stime ragionevoli, in Italia, di Sla si ammalano non meno di 1000 persone ogni anno. Di queste, oltre l’80% non dà il proprio consenso informato alla tracheostomia e, di fatto, si lascia morire. E dare o meno il consenso all’intervento rappresenta il vero e proprio spartiacque, perché accettarlo significa decidere di convertire la storia naturale di una malattia che molto spesso è ad esito rapidamente infausto, trasformandola in una malattia cronica, con una speranza di sopravvivenza anche assai prolungata negli anni. Questo aspetto cambia radicalmente il paradigma della narrazione, o meglio, opera uno scarto paradigmatico, perché richiederebbe che la narrazione, per essere anche utile, oltre che bella, contemplasse al proprio interno questo aspetto determinante e discriminante: che la battaglia non significa semplicemente vincere o morire, ma che soprattutto la vittoria non comporta la restitùtio ad integrum, ma l’accettazione della convivenza, vita natural durante, con un grado estremo di invalidità permanente.
Vivere per anni completamente immobile, con la conservazione , purtroppo neppure sempre, dei soli movimenti degli occhi e della lucidità della mente, è radicalmente altra cosa.
Restando sul piano proposto, dopo la fase della g

uerra di posizione, l’immagine che, semmai, meglio può coglierne il vissuto, è quella di una vita costretta nei confini ristretti della patria/casa, alla presenza di un esercito di occupazione contro il quale, non essendo possibile la battaglia in campo aperto, ci si deve attrezzare , malato e famiglia, ad una lunga guerra di resistenza. Infatti un malato di Sla non autosufficiente, già prima di essere tracheostomizzato, ha bisogno di sorveglianza ed assistenza esperta 24 ore su 24. La narrazione non ci racconta che, nella realtà, mogli, mariti, genitori e figli, sono costretti a lasciare il lavoro, a non uscire più di casa, a non sapere come affrontare le spese, a doversi, addirittura, accollare la responsabilità di manovre che salvano la vita nei momenti di crisi.
La realtà di almeno il 30% dei 5000 malati di Sla stimati nel nostro paese richiama assai di più un romanzo familiare di questo tipo, piuttosto che il clichè romantico dell’eroe guerriero.
Un efficace sistema di continuità assistenziale a domicilio, in questi casi, diventa l’equivalente di un farmaco salvavita. E la prima linea del piccolo esercito di resistenza, è rappresentato dagli assistenti familiari, quelli che già nella realtà le famiglie assumono e formano a proprie spese. Attrezzarsi, perciò, ad un lungo periodo di resistenza, se tradotto nel quotidiano, non può prescindere dall’acquisizione, per il malato e la famiglia, di quelle armi, o di quella cassetta degli attrezzi, che comprenda una rete di assistenza domiciliare degna di questo nome.
E la narrazione, forse, acquisendo allora un maggior legame con la realtà, aiuterebbe noi tutti a sentirci maggiormente presi in cura dalle storie che parlano di noi.
Tratto dalla relazione presentata al Corso di aggiornamento sulla Sla, tenutosi a Novara il 27-28 maggio 2011.
Foto n.1: Salvatore Usala, per gentile concessione di Alessandro Grassani photographer-Luz Photo Agency.