Quando a 54 anni ti colpisce la Sla...

Intervista sulla vita oltre la malattia

Riporto ampi stralci della lunga intervista che mi è stata fatta dal giornale locale della città dove sono nato, per lo stesso motivo per cui l'ho rilasciata: la speranza che possa essere di aiuto a chi si trova ad affrontare la stessa esperienza. Se volete commentare, fatelo con le vostre personali riflessioni sul tema. Contrariamente a quel potrebbe sembrare, ho ancora molto da imparare.

Come medico, hai sempre operato nel campo delle malattie mentali e delle tossicodipendenze, vero?
Sì; il giorno prima dell’Esame di Stato ho iniziato il Servizio civile al Centro di Salute mentale e al Sert di Fossano. Quella è stata la prima esperienza formativa e mi ha insegnato moltissimo, perché è stato il primo contatto con la malattia mentale. Partivo al mattino con il pulmino, caricavo una dozzina di utenti e li portavo al Centro, il pomeriggio mi occupavo del Sert. È stata una bella palestra. Finita l’obiezione di coscienza ci ho lavorato ancora circa un anno. A quel punto ho pensato però che nella grande città avrei potuto confrontarmi con realtà più impegnative, di maggior spessore. Così, rispetto al discorso delle tossicodipendenze, sono finito al Gruppo Abele, dove ho conosciuto mia moglie e l’ho “portata via” (si occupava dell’area lavoro e all’epoca era presidente della cooperativa costituita all’interno del Gruppo). Don Ciotti mi propose di fermarmi un paio d’anni e quella fu un’esperienza importante. Poi mi sono stabilito nel Torinese. Nell’86 io e Francesca ci siamo sposati e l’anno dopo ho vinto il concorso all’Asl. Quattro anni dopo nasceva nostra figlia Micol.

Tu adesso sei vicino alla pensione?
No, io sono “giovane” (ride); sono del ‘55. Non ci pensavo alla pensione, perché mi è sempre piaciuto molto il lavoro che faccio e poi perché ho avuto la fortuna di trovarmi bene con i colleghi. In questi venti-venticinque anni abbiamo cercato di inventare continuamente esperienze nuove, progetti, esplorare campi non ancora battuti e questo, dal punto di vista della gratificazione personale, è importante. E poi perché ho un sacco di idee e quindi, sicuramente, non pensavo alla pensione.

La malattia però ti ha messo di fronte a questa scelta.
Certo. La malattia mi ha obbligato a chiudere con tutto questo. Perché ovviamente ti vengono meno tutti gli stimoli e gli interessi che avevi fino al giorno prima e sei costretto a misurarti con una realtà completamente nuova, che ti richiede di adattarti e di scoprire nuove motivazioni perché altrimenti non hai più futuro. Se pensi di andare avanti con la vita di prima, rischi la depressione. Devi per forza progettare la tua esperienza “oltre”.

Quando sono comparsi i primi sintomi della malattia?
Il tutto è cominciato alla fine del febbraio dello scorso anno.

Veloce.
Velocissimo. Ero in giardino. Faccio per saltare un muretto e mi sento impacciato. Mi dico: “Devo proprio riprendere a fare movimento”. Mi metto una tuta e vado a correre. Ma nel giro di 15 giorni mi accorgo che non è soltanto mancanza di forma e di movimento. Comincio a sentire debolezza nelle gambe, a zoppicare. Da Natale avevo anche mal di schiena; un fisiatra mi trova un’ernia lombare (questo è uno dei casi più frequenti di errore diagnostico); faccio infiltrazioni, ma il rimedio non funziona. Zoppico; comincio a non correre più...

Quando hai cominciato a pensare a qualcosa di serio?
Fin da subito, ma il primo a mettermi in guardia è stato un chiropratico, che mi ha consigliato di rivolgermi ad un neurochirurgo: secondo lui era da escludere un problema di tipo meccanico. Faccio quindi la priva visita neurologica e nel giro di cinque giorni ho praticamente la diagnosi. Eravamo ai primi di giugno. Vengo inviato al Centro Sla delle Molinette. Purtroppo per la Sla non esistono indicatori oggettivi della malattia: la diagnosi si fa praticamente per esclusione e seguendone l’evoluzione. Si esclude che ci sia un problema di tipo meccanico, si esclude la sclerosi multipla, lesioni evidenziabili, si esclude che ci siano infezioni... La conferma si avrà poi col tempo. La diagnosi media avviene infatti a un anno e mezzo dalla comparsa dei primi sintomi. Il fatto che io abbia saputo - con sufficiente consapevolezza - nel giro di tre-quattro mesi, che poteva trattarsi di una malattia degenerativa, è una eccezione.
Purtroppo, nel corso di questi mesi, è successo un fatto che mi ha fortemente illuso. Nell’estate, dopo un esame sierologico che si fa per escludere eventuali infezioni, è emersa la positività ad un batterio che si trasmette con la puntura delle zecche. Sono quindi stato trattato con una forte dose di antibiotici in vena. Il fatto è che questi antibiotici, in una prima somministrazione, possono avere un effetto benefico transitorio a prescindere da un’infezione. Io ai primi di settembre camminavo di nuovo. Mi sono illuso.

Eri avvertito di questo?
No. Oltretutto, avendo questa positività, ho davvero pensato di essermi preso un’infezione dalle zecche facendo giardinaggio... Ho pensato che magari non avrei recuperato al 100 per cento, ma ho cominciato a convincermi che non si trattasse di una malattia degenerativa. Dopo un mese è tornato tutto come prima...

La diagnosi definitiva, dunque, è venuta dopo l’illusione che si trattasse di un’infezione.
Sì, verso ottobre. Ho detto al neurologo: “Secondo me è Sla, sciogliamo la riserva”. Certificare questa situazione per me voleva dire cominciare a metter mano alla mia vita, oltre che a una serie di cose pratiche: chiedere la visita di invalidità, ragionare del mio lavoro, della pensione, ecc... Il neurologo ha quindi deciso di mettere da parte le eccessive prudenze e ha certificato la malattia. Mi hanno avvertito di non pensare immediatamente in modo tragico, catastrofico, perché ogni caso è a sé; soltanto il tempo potrà dire qual è l’evoluzione. Cercano di farti capire che la vita non finisce lì, che non si tratta di un tumore... Del resto è proprio così. Ci sono persone che, dopo dieci anni, parlano ancora, non hanno ancora fatto la tracheotomia, viaggiano in carrozzella, sono attivi.

Il tuo caso come si pone?
La mia è una forma classica di sclerosi laterale amiotrofica, di quelle che portano a morire per insufficienza respiratoria nell’arco di due-tre anni dall’esordio. Salvo che tu decida, un po’ prima della prima crisi respiratoria, di fare la tracheotomia, di mettere il tubo e farti praticare la ventilazione artificiale. A quel punto, salvo complicazioni, in teoria la tua sopravvivenza è garantita sine die.

Quando si deve prendere la decisione relativa alla tracheotomia?
Dipende da come vanno le cose. Nel mio caso la malattia è partita dalle gambe nel febbraio 2009 (per altri comincia dalle braccia; per le donne, in particolare, spesso parte dalla parola); a novembre ho cominciato a spostarmi in carrozzella. In sei-sette mesi ho perso dunque l’uso delle gambe. A gennaio ho cominciato ad avere problemi a scrivere e a giugno-luglio mi si sono bloccate le mani.

Dunque tu non puoi scrivere al computer?
Uso la tastiera virtuale; muovo il mouse con la mano destra e clicco con la sinistra. Da febbraio, marzo ho avuto un calo di voce e poi difficoltà a pronunciare alcune lettere. Credo che a fine anno avrò forti difficoltà a comunicare e, per uno come me, che ama tanto parlare, è terribile.

Lo immagino.
Se l’andamento è di questo tipo, il passo successivo è la difficoltà ad alimentarsi. Per cui a quel punto, per evitare di andare sotto peso o di avere polmoniti da ingestione di alimenti, tocca fare la Peg, cioè inserire, tramite un intervento, un tubicino che consente di raggiungere direttamente lo stomaco. Quasi contemporaneamente - o prima, o dopo - se si indeboliscono e poi si bloccano i muscoli respiratori, si cominciano ad avere difficoltà respiratorie. Il primo passo è la ventilazione notturna, perché dormendo si può andare in ipossia, per cui si comincia con una ventilazione esterna (le maschere), prima di mettere il tubo. Il problema è che una crisi respiratoria grave può insorgere anche senza grandi segni premonitori, per cui conviene anticipare questa scelta.

Tu hai già preso una decisione?
Sì; io ho iniziato da tempo a pensarci. Il mio percorso è stato molto difficile. Nell’estate, sia prima che dopo l’illusione di poter curare l’infezione e guarire, ho pensato al suicidio... Perché la prospettiva di vita in un letto, immobile, con la possibilità di comunicare soltanto con gli occhi, magari assistito da badanti e infermiere, mi aveva fatto dire: “No, quella non è vita. La faccio finita prima, con l’aiuto di qualche amico collega”. Poi, una volta avuta la conferma della malattia, mi sono preso tempo per riflettere. Un approfondimento che è durato un paio di mesi. Mi sono detto: “Datti tempo”. Io sono sempre stato un carattere abbastanza impulsivo; faccio fatica a fermarmi per assumere decisioni consapevoli e meditate. L’impulso maggiore a decidere è venuto da Francesca, che mi ha detto: “Io ci sono; qualsiasi decisione tu prenda io ci sono”. Non è una cosa così comune. Molti malati sono rimasti soli perché chi gli era accanto non se l’è sentita di intraprendere un percorso così difficile. Ho capito che per lei sarebbe stato molto più duro immaginare che io rinunciassi a vivere, rifiutando l’intervento di tracheotomia. Inoltre Francesca mi ha consentito di uscire da un vicolo cieco che si presenta a chiunque abbia di fronte la prospettiva di una grave invalidità, e si trovi a dover scegliere tra vivere o morire. E cioè il fatto che man mano che l’invalidità avanza non ci si sente più persona, cioè non ci si identifica più con la propria storia, con quel che si è. Interviene un problema enorme di identità. Non sai più chi sei. Nel momento in cui diventi un disabile, tendi a svalutare tutto quello che sei stato. Per questo devi riuscire ad avere intorno a te delle persone che ti fanno da specchio e ti rimandano che tu sei sempre tu, anche se non cammini, se non parli, non mangi. Se riesci a mantenere la mente lucida, se continui a poter comunicare, la tua integrità come persona è assolutamente preservata. Questo ti dà una spinta e una consapevolezza per sopravvivere. Io ho la fortuna di passare attraverso questa esperienza.
Ne parlo con difficoltà perché un conto è quello che tu senti con te stesso, un conto è vedere il peso, la fatica esistenziale ma anche quotidiana che si accolla chi ti sta intorno. Questo mi fa fare i conti con sensi di colpa che non hanno ragione di essere, ma che esistono. E quindi, è una bella battaglia. Però, fondamentalmente, tutto questo mi ha permesso, nel giro di due mesi, di dire: “Vado avanti”.

Dicevi che non è assolutamente una decisione scontata.
No. La cosa che nessuno sa è che in Italia, pure uno dei Paesi in cui si fa di più per le malattie degenerative, su 100 malati soltanto 15 decidono di fare la tracheo; gli altri scelgono di morire. A me piacerebbe concorrere a far sì che si inverta questa percentuale.

Come pensi che si possa invertire questa tendenza?
Devi arrivare a pensare che la vita ti può ancora dare molto. Può essere molto retorico dire: “Questa è una nuova esperienza, che mi ha portato via tanto ma, come tutte le esperienze, mi può dare molto”. Può essere una frase retorica di cui cerchi di autoconvincerti, oppure può essere qualcosa a cui arrivi perché l’hai elaborato, perché hai scavato in profondità e diventa una tua realtà mentale, anziché qualcosa di posticcio. Ma per farlo servono alcune condizioni. Intanto devi avere già un atteggiamento di un certo tipo nei confronti della vita. E poi devi avere qualcuno che ti ama, perché noi siamo le relazioni che intratteniamo; soli e isolati diventiamo degli oggetti, che non hanno più nessuna possibilità di dare un senso alle cose che succedono. La terza condizione - ed è quella che spesso manca - è che le persone che ti amano devono essere a loro volta supportate perché altrimenti rischiano di ammalarsi con te. Servono sostegni di tipo professionale e anche economico, che consentano di condurre insieme una vita sufficientemente degna. Io conosco degli ammalati i cui famigliari non ricordano più l’ultima volta che hanno dormito tre ore di seguito per notte oppure i cui famigliari da anni non escono di casa. Perché con l’avanzare della malattia ci vuole un’assistenza 24 ore su 24. Una mia amica sarda, economista, che assiste la madre, non esce più di casa perché per ben tre volte solo il suo intervento tempestivo ha impedito alla madre di soccombere alle crisi respiratorie. “E se io esco e succede di nuovo? - dice la mia amica - non potrei mai perdonarmelo”. La mia amica così non esce più.

Manca addirittura l’assistenza domiciliare?
Sì, e non si tratta di casi isolati. Qua e là ci sono isole felici, esperienze interessanti, ma il vissuto dei 5 mila malati di Sla e delle migliaia di persone non autosufficienti è quello dell’abbandono sia dal punto di vista economico che assistenziale.
Qui vicino abita una ragazza di 22 anni che quattro anni fa ha avuto un incidente ed è stata in una situazione di coma profondo; adesso è in stato di “minima coscienza”. Ha gli occhi aperti e reagisce in modo elementare agli stimoli dei genitori. Servirebbe un fisioterapista a domicilio. Il papà dice: “Noi la stimoliamo, ma non ce la facciamo più”. Per alimentare la speranza bisogna che le istituzioni mettano in campo dei servizi adeguati, che ci sia la possibilità che qualcuno venga a casa e metta in campo interventi riabilitativi -o di altro genere - che possano dare un senso al fatto che uno sceglie di continuare a vivere.
Se l’85 per cento dei malati sceglie di non fare la tracheotomia, è perché non se la sente di continuare a vivere in quelle condizioni; oppure se la sente, ma è solo, non ha chi gli vuol bene. Oppure sa che non avrebbe il sostegno adeguato, né lui né i suoi cari, per poter andare avanti. Ma c’è un altro fatto: anche se tutte queste tre condizioni ci fossero, sai che dopo aver preso la decisione di andare avanti non puoi tornare indietro, non puoi più “staccare la spina”.

Tu credi che l’irreversibilità della scelta sia uno dei motivi che fa dire no alla tracheotomia e quindi rinunciare alla vita.
Credo di sì. Io conosco un caro amico che ha già deciso di non fare la tracheotomia proprio per questi motivi.

Come associazioni vi state battendo perché cambi qualcosa?
Questo è un discorso molto difficile, perché le coscienze sono divise. Io credo di poter dire, avendo conosciuto molti malati, che chi vive sulla propria pelle questa situazione non ragiona in modo ideologico o integralista. Il diritto della persona alla vita comprende anche il diritto a poter morire serenamente, adeguandola al proprio personale significato della vita.
La vita non sempre e comunque, ma una vita degna di essere vissuta. Questo presuppone il diritto inalienabile a scegliere il proprio destino. Ma anche nelle nostre associazioni, se parli di autodeterminazione passi per uno che lotta per la morte, passi per un nichilista... Questa è una forma di coartazione, molto diffusa, anche tra gli addetti ai lavori. Purtroppo, quando si fanno discorsi di questo tipo, si tende a schierarsi e a semplificare qualcosa che invece è molto complesso.

E tu, nonostante tutto, te la senti di dire sì alla tracheotomia, di andare avanti.
Sì. Anche se parlare di queste cose mi emoziona, in realtà io ho un atteggiamento molto curioso per cui io mi diverto ogni giorno per quello che faccio. Mi divertivo prima e continuo a divertirmi adesso. E quindi per me è abbastanza naturale non rinunciare a vivere, a meno che, appunto, non ti si prospettino le condizioni che dicevo prima, per la mancanza di amore e di sostegno che ti impediscono di affrontare la vita con questo spirito. Io so benissimo che, rispetto agli altri malati, sono un privilegiato. Per tutte queste cose me la sento. Assolutamente.

Ora veniamo a qualcosa di più... facile. Appena sei venuto a conoscenza di questa tua condizione, tu ti sei messo in contatto con le associazioni che se ne occupano, a informarti.
Sì. Quando, alla fine del 2009, ho finito quel paio di mesi di “quarantena”, mi sono iscritto a un forum nazionale (Sla Italia) che vede la partecipazione di qualche centinaio di malati o loro famigliari e che consente di comunicare in tempo reale. È una sorta di gruppo di auto-aiuto ed è anche una fonte interessante di aiuto tecnico. Ho cominciato a conoscere le storie e le situazioni di molti malati e contemporaneamente ho reso pubblica la mia condizione. Io non avevo mai fatto mistero della mia malattia (al lavoro, con gli amici), ma quello è stato il momento in cui ho iniziato a raccontare la mia storia, a portare la mia testimonianza.
Inoltre mi sono chiesto che cosa potevo fare io, come medico, per dare un senso al mio “continuare a esserci” e per continuare a fare quello che ho sempre fatto. In fondo, da medico, ho sempre cercato di mettermi dall’altra parte della scrivania. In questo caso è tutto molto più semplice, perché adesso dall’altra parte della scrivania ci sono anch’io. E quindi ho una credibilità ed una possibilità di capire molto maggiore di prima.

E ti sei fatto promotore di un nuovo blog.
Sì, con una ragazza di Alghero, un avvocato di Roma e un collega di Caserta ho aperto una modalità diversa, con l’obiettivo di dare sostegno, di fare denuncia e di offrire un’informazione corretta. Nel giro di venti giorni si sono iscritti in cinque mila. Una cosa assolutamente inattesa, non preventivata. Per accedervi bisogna essere iscritti a Facebook.

Hai voluto metterti in gioco anche come medico.
Sì. Perché quello che mi interessa non è solo conoscere gli altri malati o raccogliere fondi da inviare a qualche ente di ricerca (che spesso, ahimè, adottano metodi clientelari), ma cercare di lavorare, di far crescere il ruolo pubblico sia nel campo della ricerca che nell’organizzazione dei servizi. Ho parlato con i colleghi che mi hanno in cura. Ho spiegato che mi sarebbe piaciuto fare un’indagine in Piemonte per conoscere il livello assistenziale reale; quindi incrociare questo dato con quello che viene dichiarato dalle istituzioni socio-sanitarie per ottenere una fotografia sia delle esperienze pilota - che pure ci sono e funzionano - e sia delle enormi criticità, per poi provare ad immaginare un progetto di intervento il più completo possibile.

E chi si occuperebbe di questa indagine?
Quando ho prospettato questa idea al prof. Adriano Chiò (docente universitario, uno dei massimi esperti di Sla, che ha aperto e dirige il Centro Sla alle Molinette), ho saputo che esiste un progetto interregionale che si propone, in un biennio, di disegnare e sperimentare la rete territoriale di assistenza alle malattie neuromuscolari. Contemporaneamente, nel dicembre scorso, l’allora assessore regionale alla Salute Eleonora Artesio aveva identificato, seppure genericamente, la rete territoriale di assistenza a queste malattie e aveva istituito due centri di riferimento a Torino e Novara. Tutto questo fa sì che in Piemonte, più che in altre regioni, le condizioni di partenza siano interessanti.

Dunque ti occuperai tu di questo progetto interregionale.
Io mi sono candidato a portarlo avanti. Ho cominciato a lavorarci mettendo insieme un piccolo gruppo di lavoro: una dottoranda in Scienze sociali, ad esempio, che mi sta aiutando a mettere giù un questionario da somministrare a tutti i malati. L’idea è di partire con il primo step del progetto. Se riesco a farlo come dipendente pubblico bene, anche se ci sono un mare di difficoltà burocratiche, altrimenti lo faccio a livello di volontariato. Questa è la prima cosa a cui tengo parecchio.

C’è una seconda cosa?
Sì. Ho cercato di mettere in piedi alcune iniziative anche di visibilità con l’obiettivo, oltre che di raccogliere fondi, anche di riuscire a mettere insieme le diverse associazioni. Ho cercato di impostare un discorso che non riguardi soltanto questa patologia specifica, ma che guardi a tutte le patologie che hanno bisogni socio-sanitari molto simili e a tutte le gravi disabilità. Cercando volontari per realizzare queste iniziative, sono venuto in contatto con altre associazioni, con l’Apasla - Associazione piemontese per l’assistenza alla Sla - che, a differenza di altre, ha un taglio molto operativo ed è un punto di riferimento concreto per i malati.

È con questi volontari che hai realizzato il concerto di luglio al Lingotto?
Sì. A febbraio ho conosciuto Gianluca Fantelli, cantautore di Bologna affetto da Sla. Gli ho detto: “Sei l’unico artista che può essere testimonial nazionale. Ti faccio venire a cantare a Torino”. E così, con l’aiuto di un piccolo gruppo di volontari e di un consigliere comunale di Torino, abbiamo messo in piedi un progetto e il concerto di luglio. Contemporaneamente, visto che erano disattesi una serie di provvedimenti molto importanti (tra cui l’assegno di cura e l’istituzione dell’assistente famigliare esperto), abbiamo organizzato a giugno un’iniziativa di protesta, in concomitanza con quella nazionale. Io sono andato a Roma per chiedere l’approvazione dei nuovi Lea (Livelli essenziali di assistenza), mentre a Torino altri malati hanno manifestato sotto la Regione. Abbiamo ottenuto l’apertura di un tavolo di confronto permanente.

Un tavolo non si nega a nessuno...
Sì: tavoli, documenti... Quello che io vorrei, invece, sono incontri periodici in cui avanzare proposte concrete, sostenibili, a cui non si può dire di no a meno di ammettere la mancanza evidente di volontà politica. Dopo l’iniziativa di luglio, comunque, sono stati sbloccati gli assegni ed è stata accettata l’idea di istituire un primo corso per i badanti esperti.

E veniamo al concerto del 29 ottobre a Venaria Reale.
A differenza dell’iniziativa del Lingotto (dove il concerto era accompagnato da una conferenza), a Venaria Reale intendiamo fare una cosa più leggera. Uno spettacolo senza chiacchiere, senza interventi. Mi sono fatto mandare un reportage fotografico sulla Sla (molto bello); ci saranno la musica e le canzoni di Gianluca e, per quanto riguarda l’aspetto informativo, distribuiremo un opuscolo che spiega che cos’è la Sla e il senso della manifestazione.

I due concerti sono a sostegno dell’attività che state svolgendo?
Hanno il preciso intento di dare un contributo concreto a tutto quello che ho detto. E, insieme, concorrono a dare un minimo di visibilità ai malati e alle condizioni in cui vivono. Si tratta di occasioni che danno entusiasmo a chi lavora, ai volontari, che motivano. L’importante è che restino sempre uno strumento e non diventino iniziative fini a se stesse.

LUIGINA AMBROGIO - La Fedeltà 12.10.2010

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Ivan ed io

Lettere sulla malattia e il testamento biologico

Alcuni mesi fa Ivan Vaccari ed io abbiamo iniziato a dialogare in pubblico, scambiandoci lettere sulla pagina da lui gestita su facebook. Ivan è un giovane avvocato particolarmente sensibile a questi temi, avendo perso il padre, malato di Sla, quando aveva appena 12 anni, e la sua pagina conta oltre 20.000 aderenti.
Queste, in sintesi, le nostre riflessioni:

Io
Faccio il medico e dunque, per mestiere, mi sono sempre occupato della sofferenza degli altri. Finchè un giorno mi sono improvvisamente trovato dall'altra parte della scrivania e mi sono reso conto sulla mia pelle di quello che ho sempre saputo: che per rendersi conto davvero bisogna esserci dentro...
Perché avere la SLA - Sclerosi Laterale Amiotrofica - non vuol dire solo progressivamente non potersi più muovere, parlare, mangiare e respirare, e neppure cose belle e commoventi come attivarsi per sensibilizzare, richiedere solidarietà e andare in televisione a raccogliere fondi per la ricerca.
Avere la SLA vuol dire anche dover fare i conti con un’assistenza che non c’è e che diventa indispensabile man mano che la malattia progredisce, doversi battere per diritti negati, per non ritrovarsi soli, malati e famiglie, spesso senza mezzi economici né informazioni né assistenza domiciliare adeguati a sopportare la quotidianità di una malattia catastrofica, in preda alla disperazione.
Ovviamente so bene che questo non vale solo per la SLA, ma è un dramma comune a tutte le condizioni di malattia "rare" o che non sono ancora oggetto della giusta attenzione da parte del sistema sanitario e delle case farmaceutiche, che non sono certo enti di beneficenza...
In questi mesi ho raccolto già un discreto campionario di negligenze e superficialità, piccole e grandi, dalle generiche ma paralizzanti questioni sulle barriere architettoniche, alle specifiche questioni di informazione, assistenza sanitaria e sociale per poter dire che, in particolare all'inizio, l'esperienza più frequente è di trovarsi davvero soli con questa diagnosi terribile...
E mi sono ritrovato ad interrogarmi sulla (nel mio piccolo) condizione obbiettivamente privilegiata di medico, a cui è permesso di avere accesso inevitabilmente ad informazioni e conoscenze personali irraggiungibili ai più e a chiedermi: ma come diavolo faranno tutti quelli che non hanno mezzi né risorse di altro tipo a destreggiarsi con le macroscopiche insufficienze se non addirittura con le mafie?
Ancora una considerazione: credo che sia giunto anche il momento in cui si debba e si possa esplicitamente, liberamente e laicamente discutere di tutto, anche di temi come il fine vita e il testamento biologico, affrontati dal punto di vista del diritto individuale, senza dover subire preventivamente rimproveri accigliati, frutto spesso di pregiudizi che sanno di integralismo, volendo invece ricercare non un’idea astratta di “vita sempre e comunque”, ma una vita che rispetti i canoni di dignità umana propri di ognuno, come riconosciuto dalla Corte Suprema di Cassazione nella sentenza sul caso Englaro. Perché queste cose non dovrebbero avere diritto di cittadinanza?
Vi chiedo allora una cortesia. Se leggere queste righe in qualche modo vi tocca e avete voglia di esprimere liberamente il vostro pensiero, fatelo e arricchite queste mie piccole riflessioni, anche se non siete d'accordo: il conflitto delle opinioni e la capacità di rispettarsi e di muoversi insieme, al di là delle differenti idee, sono il sale della democrazia e possono smuovere le montagne.

Ivan
Ho quasi 27 anni, ho perso mio padre che ne avevo 12, lui 39. Ormai sono 14-15 anni, non conto più il tempo.
Da figlio, creando il gruppo sono incazzato (permettimelo).
La Sla, 15 anni fa, chi la conosceva? Mi dice la seconda moglie di mio padre (allora i miei erano divorziati e papà si era ricostruito una vita) che addirittura andarono dall'immunologo, credendo fosse una patologia autoimmune....
Negli anni se ne è parlato poco, tranne quando si è ammalato qualche nome famoso.
E allora ecco a dire che visto che era una malattia che colpiva gli sportivi, e per qualche assurdo sillogismo gli sportivi, tutti, erano dopati, allora tutti i malati erano dopati...
Tu hai scritto delle cose molto giuste e le hai scritte con la semplicità di un paziente ma con la razionalità di un addetto ai lavori.
Essendo oggi un praticante avvocato sto conoscendo i diritti, ma soprattutto le loro negazioni, e questo non può che avvicinarmi ancora di più alle tue parole...credo molto nella laicità, ma che sia laica non solo la scelta di morire, ma anche quella di curarsi.
Mi correggerai ma, vedo cure e ricerche che vanno bene quando hanno il placet di qualcuno, che non chiamo chiesa, ma chiamo qualcuno...
Ecco, io alle tue parole aggiungerei questo: manca la diffusione del problema, manca la COSTANTE diffusione del problema, non ne possiamo parlare a tratti quando qualcuno di importante si ammala. Manca laicità nella cura.

Io
Caro Ivan, il motivo per cui mi sto muovendo è esattamente contenuto nelle tue parole: lottare non "contro", tantomeno contro una malattia. Le malattie si accompagnano alla salute come la notte col giorno e il piacere col dolore, sono l'altra faccia della stessa moneta, ma lottare "per".
Con la sacrosanta incazzatura che questo comporta, perchè lottare "per" la ricerca vuol dire rendersi conto che beneficenza e volontariato sono benedetti, ma da soli non bastano e in una società civile dovrebbero essere integrativi e non sostitutivi di un diritto sancito dalla Costituzione. Si è mai visto che il sistema sanitario aspetti una partita di calcio fra nazionale cantanti e vecchie glorie o una campagna televisiva strappalacrime per garantire campagne vaccinali contro l’influenza di stagione? E’ normale che se le case farmaceutiche non hanno prodotti miliardari da rifilare allo stato quest’ultimo si astenga dall’investire nella ricerca? E in Italia lo stato della ricerca è da encefalogramma piatto, in ogni settore.
Lottare "per" un'assistenza domiciliare degna di questo nome vuol dire capire che la situazione è desolante perchè in troppe AASSLL italiane, i malati e le famiglie sono soli, figli e coniugi assistono i propri congiunti senza assegni o con sostegni miseri, devono lasciare il lavoro e l’assistenza domiciliare, se passa, lo fa per pochi minuti al giorno, con personale inesperto anche tecnicamente oltre che psicologicamente. Chi può si paga la badante e si arrangia. Già, ci campiamo noi italiani con l’arte di arrangiarsi….
Dunque vedi, credo che il primo diritto sia assolutamente quello alla salute e alle cure.
Tutto questo non è in contraddizione con il fatto che esiste sempre un limite, ed è col limite che si deve fare i conti. Ognuno lo farà secondo la propria storia, la propria sensibilità e la propria coscienza. Garantita la possibilità di una vita degna di essere vissuta, garantita ad ognuno la speranza, può accadere ciononostante che la sofferenza sopravanzi la vita e che ciò possa portare chiunque di noi a desiderare che la vita e la natura, e la malattia che della vita e della natura fanno parte, facciano il loro corso. Credo sarebbe giusto poterlo fare in piena libertà, nel rispetto della volontà di ognuno.
Grazie a Peppino Englaro, di testamento biologico finalmente si è iniziato e si può parlare. Ma, svanito il clamore di quella vicenda, i riflettori hanno abbandonato la scena.
Il progetto di legge governativo prevede che la volontà della persona a rifiutare alimentazione e idratazione forzata debba essere presa in considerazione solo come suggerimento, ma non possa essere decisiva. E in caso di stato di incoscienza non possa avere valore la volontà anticipata della persona. E ciò, nonostante sia inoppugnabile e dichiarato anche da Organizzazione Mondiale della Sanità e dall’Ordine dei Medici del nostro paese che si tratta di atti medici, a cui nessuno può essere obbligato contro la sua volontà, se non appunto per norma di legge.
Così, lasciati soli, ma anche per non essere costretti a lasciare la decisione sul proprio fine vita a qualche senatore integralista, alcuni malati di SLA rifiutano di avviare l’alimentazione forzata, che comporta avere un tubo nella pancia, ma soprattutto rifiutano la tracheostomia, che comporta un altro tubo per respirare, tubi che una volta messi non potrebbero essere mai più staccati.
La mia domanda, semplice e limpida come una goccia d’acqua, è: se, giunto alla fine della propria vita, un uomo sceglie, in piena coscienza e assistito amorevolmente, e circondato dall’affetto dai propri cari e curato da personale esperto, di non voler più accettare uno stato di sofferenza che è diventato insostenibile, nonostante la vita gli doni ogni giorno tutto ciò che ce la fa amare, può avere la libertà di rifiutare atti medici la cui prosecuzione sarebbe da lui vissuta come accanimento, può lasciare che la vita e la natura facciano il loro corso, o qualcuno deve arrogarsi il diritto di decidere al posto suo?
Io credo che la lotta possa essere una sola, senza contraddizioni, per la dignità e l'autonomia delle persone. Leggi laiche non obbligheranno mai nessuno a scelte che motivi religiosi o di coscienza vietano loro, dovranno consentire invece il rispetto di ognuno.

Ivan
Nel tuo primo messaggio hai scritto che da medico hai avuto, come paziente, accesso a sistemi che, se fossi stato un normale paziente ti sarebbero stati preclusi.
Quello che mi chiedo è questo: è vero, ci sono prinicipi costituzionali inattaccabili che da soli dovrebbero, e dico dovrebbero, essere un deterrente contro qualsiasi eventuale deviazione del comportamento. Purtroppo il caso Englaro è stato un esempio di come si possa avere la sfacciataggine di calpestare senza misura questi principi. Quando la Cassazione giustamente decise come tutti sappiamo, si tentò di emanare un decreto legge (un provvedimento d'urgenza, quindi tipico di una situazione di emergenza) col quale delegittimare, rendendola illecita, la sospensione dell'alimentazione, che però la cassazione aveva deciso...
Ecco, qui abbiamo corso il pericolo che si creasse contro ogni logica giuridica un quarto grado di giudizio, mascherato da legge...è stato pericolosissimo quello che abbiamo visto.
Ma da qui abbiamo imparato che per quanto si dica di voler bene alla Costituzione, l'interesse va oltre il principio.
Ecco, ora rifletto e dico che, posto che i principi al giorno d'oggi non sono che un modo per riempirsi la bocca e prendere voti, aspettare che questi vengano realizzati è pura illusione, anche se è chiaro che non ci si può e non ci si deve rassegnare.
Però forse entrare nel sistema e roderlo, nei limiti della legittimità, potrebbe essere un passo avanti per richiamare l'attenzione proprio sui principi non rispettati.
Ora, non voglio certo fare apologia di qualche reato, ma semplicemente dire che, purtroppo, in italia non vengono troppo notati quelli che fanno esattamente e sempre le cose nel modo canonico, ma quelli che si incazzano e reagiscono...

Io
Caro Ivan, beh vedi, esiste ad esempio una norma del codice deontologico che risale a tempi antichi, secondo cui un medico è moralmente tenuto a curare gratuitamente colleghi e familiari. E' una bella cosa, ed io ho semplicemente chiesto a colleghi se potevano visitarmi e darmi il loro parere e questi lo hanno fatto gratuitamente e in tempi rapidi. Poi, laddove mi sono successivamente rivolto al servizio pubblico, ho invece scontato tempi lunghi e trascuratezze. Allora mi sono nuovamente attivato e mi sono praticamente autoprescritto esami e approfondimenti diagnostici che un non medico non avrebbe ovviamente potuto neanche conoscere e valutare, perchè semplicemente non addetto ai lavori...
Il punto è che mi sono fermato a riflettere e mi sono chiesto: se nonostante la mia condizione particolare anch'io mi sono sentito per lunghi periodi solo, come faranno gli altri? Perchè il problema è appunto che cortesie e attenzioni normali in una situazione normale, si trasformano invece in privilegi in situazioni che normali non sono.
Quello di cui stiamo parlando non è che un piccolo esempio di come ci si debba attivare se vogliamo ottenere il rispetto dei diritti fondamentali che non è se non è per tutti, e di cui quello alla salute è uno dei principali.
La Costituzione è spesso calpestata, in primo luogo dai politici che ad essa dovrebbero ispirarsi. Ma ci dobbiamo rendere conto che quello di cui stiamo parlando è politica, nel senso migliore del termine, occuparsi appunto della polis, delle faccende che riguardano la vita di tutti. Quell'altra è la cattiva politica, imperante. Così come quando ce la prendiamo con lo stato, giustamente, ma rischiamo di dimenticarci che è stato quello che collude con la mafia, ma sono anche stato i magistrati trucidati dalla mafia, e stato siamo anche noi che votiamo cattivi rappresentanti e paghiamo le tasse mentre una parte non piccola del paese le evade sistematicamente. Dunque hai ragione, non ci si tira fuori neanche volendo: non resta che unirsi, individuare proposte sostenibili e lottare per il rispetto dei diritti negati, che è l'esatto contrario di aspettare e vedere...
Guarda Beppino Englaro: avrebbe potuto fare nel silenzio quello che è illegale in Italia e che molti fanno, sia qui, in silenzio, che andandosene all'estero. Ha deciso invece di ingaggiare una lunghissima e sofferta battaglia civile alla luce del sole per ottenere il rispetto dei diritti della figlia e, insieme, quello di chiunque si trova e si troverà nella sua situazione.
Una cosa è certa: non ci faremo sotterrare senza combattere.

(continua...)

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Pacifismo part-time


Non dirò che è morto un mercenario, non mi permetterei mai. Considero anch'io un lutto per la nazione la morte del tenente Alessandro Romani, ultimo della lunga serie di caduti italiani della guerra in Afghanistan.
Ma certo, questa volta, la retorica e l'ipocrisia nazionali hanno superato ogni limite. Quella a cui apparteneva il ten. Romani è un'unità sotto copertura, cioè segreta, che agisce in missioni di guerra di cui si sa ancora meno del nulla che sappiamo circa le operazioni di guerra "regolari" .
Una guerra infinita, quella afghana.
Una guerra "sporca" come tutte le altre, dove è la popolazione civile a pagare il tributo più alto di vittime. Una guerra a cui con alta professionalità partecipiamo per decisione politica, chiamandola "missione di pace" perchè la Costituzione, altrimenti, ce la vieterebbe.

Diceva Gino Strada a proposito dell'ospedale di Lashkar-gah:
Quell'ospedale dà fastidio, perchè ti sbatte in faccia la verità sulla guerra: che il 40% di quelli che finiscono sotto i bombardamenti sono bambini. Te la sbatte in faccia con le foto, le facce, i sorrisi o i pianti. D'altra parte non c'è neanche un giornalista che possa documentare quello che sta succedendo, non è stato ammesso un solo giornalista nelle operazioni. Perfino le regole fondamentali lì sono saltate.

Che ogni bara che torna avvolta nel tricolore venga strumentalizzata per santificare "uomini pacifici caduti in missione di pace", è cosa a cui ogni coscienza civile dovrebbe ribellarsi.
La verità è che di questi morti, familiari e commilitoni a parte, non importa niente a nessuno.

23.9.2010

Le prigioni senza sbarre


Quello che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla
(Lao Tse)



Cos’hanno in comune le privazioni imposte da una grave malattia invalidante e quelle derivanti dalla carcerazione, tanto più quando ingiusta? Per le malattie mi riferisco, in particolare, a quelle gravissime patologie che coinvolgono il sistema neuromuscolare, come la sclerosi laterale amiotrofica, oppure ai gravi traumatismi cranio-encefalici e alla sindrome locked-in (che significa per l’appunto “incarcerato”): tutte situazioni nelle quali l’esito finale, anche grazie alla avanzata tecnologia medica, è che il carceriere ha gettato la chiave e il destino è quello di restare prigionieri del proprio corpo per il resto della vita.
E ancora: come si può continuare ad esplorare la categoria del possibile quando le possibilità dell’esperienza vengono ad essere drasticamente ridotte?
Queste domande mi sono balzate in mente leggendo un bel lavoro di qualche anno fa di Susanna Terracini, matematica , che recuperava le lettere che Ernesto Rossi scrisse, prima dal carcere fascista e poi dal confino, e ne rievocava l’incontro, sempre in carcere, con Vittorio Foa, economista, ma soprattutto padre nobile della sinistra del ‘900 (e anche un po’ oltre). E conteneva anche una bella intervista allo stesso Foa.

Ernesto Rossi, antifascista laico, fondatore di Giustizia e Libertà, viene condannato, in ragione delle sue idee, a vent’anni di carcere dal Tribunale speciale fascista; di questi, complessivamente, nove li trascorre effettivamente in prigione e quattro al confino. Lungo tutti questi lunghi anni Rossi “inganna” il tempo non solo nell’incessante organizzazione di tentativi di evasione, ma soprattutto nel costante esercizio della matematica, attività intellettuale di astrazione per eccellenza. E, appare evidente, lo fa non come pura coltivazione di una passione individuale, ma come affermazione di continuità di sé, della propria identità e della dignità di persona.
Senza scomodare l’esperienza di un Primo Levi nel campo di sterminio, anche la vicenda umana di Ernesto Rossi, certamente meno estrema, suggerisce che la persona è innanzitutto tale se le è concesso di coltivare la propria ricerca di senso ed esporla al confronto con “l’altro”.
Già nel 1931, nel carcere di Piacenza, Rossi ottiene gesso e lavagna e si butta, infatti, nello studio collettivo, insieme con una improbabile truppa di ferrovieri e contadini, anarchici e comunisti, non tutte e sempre “teste fini” dal punto di vista del livello intellettuale. Ma che importa, la passione e la creatività della condivisione nell’esercizio della matematica rivelano la potenza straordinaria propria di un gesto artistico collettivo. E già questo è sorprendente, perché non vi è nulla di apparentemente più logico e rigoroso, e, mi verrebbe forse da pensare, rigido, del metodo matematico.

Rossi legge anche Poincarè, il matematico e filosofo francese che formulò la celebre “congettura”, problema matematico di straordinaria complessità, tanto da dover attendere oltre un secolo per essere dimostrato. E mi viene in mente di un altro spericolato accostamento che lessi circa Poincarè, che associava la sua congettura alla ipotesi matematica della struttura dell’universo, rendendo addomesticabile concettualmente qualcosa di altrimenti incontenibile dalla mente umana: la stessa struttura finita eppure al tempo stesso infinita che si ritrova, sorprendentemente, nell’architettura del Paradiso dantesco.
Ecco: privati della libertà, nel punto più alto della storia del ventennio, c’erano antifascisti che teorizzavano di “infinitesimi di ordine diverso che tendono a zero uno più rapidamente dell’altro”. Fantastico.

A Regina Coeli, dopo l’ennesimo trasferimento a seguito dell’ennesimo piano di evasione fallito, Rossi riprende con i nuovi compagni, in prima fila Riccardo Bauer e successivamente Vittorio Foa, a lavorare su bazzecole come teoria delle congruenze, teoria dei determinanti, equazioni lineari e calcolo infinitesimale. L’accanimento con cui questo manipolo di antifascisti tenta ripetutamente di poter mettere per scritto i passaggi matematici, nel divieto assoluto di farlo, dà l’idea di una autentica lotta per la sopravvivenza: a ogni sequestro di “armi improprie” seguiva una nuova invenzione. Dai bastoncini di sapone ai fiammiferi di legno mischiati con la cera, dalle scaglie di piombo delle inferriate al gesso del lucignolo dei lumini, tutto pur di poter surrogare penna e calamaio.

E ho pensato allora a come è difficile continuare a percepirsi persona, nella pienezza del rapporto con gli altri, quando vengono meno la libertà di movimento, la libertà di scegliersi i propri interlocutori e di comunicare con loro. E qui nasce l’idea dello spericolato parallelismo: la paralisi della libertà nel corso di una restrizione fisica imposta dal potere non è in fondo dissimile a ciò che accade quando è la natura a imporre le limitazioni di una paralisi motoria che costringe il corpo dentro una prigione senza sbarre.
Il disperato tentativo di un malato che può solo più muovere gli occhi, alla ricerca del non annullamento di sé entro i confini della minorazione, mi appare altrettanto forte dello sforzo del prigioniero di un regime totalitario per conservare la propria integrità senza alienarla in mani altrui.

Racconta Foa: in carcere, si cerca di avere degli orizzonti più aperti perché il carcere è uno strumento con il quale, tenendoti chiuso, si cerca di limitare la tua stessa mente, inchiodarla al presente, a quella astratta aridità che ha la vita in una cella. Noi eravamo impediti di scrivere. Non potevamo scrivere a nessun altro che a padre e madre, una volta alla settimana. Non potevamo sentire musica di nessun tipo. Non potevamo nemmeno cantare nulla. Si cercava di limitare la nostra stessa mente e indubbiamente la Matematica per me ha avuto questa capacità: di rompere la chiusura e di arrivare a qualcos’altro. Ancora recentemente, parlando di queste cose con un amico, ricordavo che durante tutti gli anni del carcere non ho mai letto delle poesie e spiegavo come questa mancanza abbia impoverito la mia vita, non solo allora ma anche dopo. E lui mi disse: “È vero, ma hai studiato Matematica!” Ed è vero. Lo studiare Matematica permetteva improvvisamente di uscire in un campo in cui il tuo persecutore non entrava – questo campo non lo interessava – in cui tu potevi muoverti a tuo agio, senza che lui sapesse né si interessasse di quello che facevi.

Le stesse parole potrebbero essere pronunciate da un distrofico o da un ammalato di Sla, se riferite alla frequente, acquisita abitudine di scrivere poesie, memorie, racconti e romanzi mai scritti prima. Il bruco si libera dallo scafandro sublimando se stesso, erigendo difese dall’alienazione di sé e costruendo ponti per poter comunicare con gli altri. Per dirla con Foa: si esce in un campo in cui il tuo persecutore, la malattia, onnipresente e pervasiva nel suo oggettivo intento di annientamento, non può entrare. Diventa davvero questione di vita o di morte: si giunge a temere, più ancora che una crisi respiratoria, il blocco del proprio comunicatore oculare. Ad ogni interruzione dell’ADSL e ad ogni guasto del personal computer si viene assaliti dall’angoscia che comporre, scrivere e comunicare possano essere negati per sempre.
L’irrompere di una malattia catastrofica pone drammaticamente, in pari con l’avvenuta consapevolezza, il nodo della identità e dell’immagine di sé perdute. Uscirne è tutt’uno con il rifiuto di identificarsi con la malattia stessa, con il recupero di sé come persona attraverso le proprie intatte facoltà mentali, la scoperta di attitudini inesplorate, la passione verso territori di creatività intellettuale e di impegno ai quali, con sorpresa, ci si ritrova ad affidare il senso non solo di una nuova esperienza, ma, in questo caso, di una nuova fase della propria vita.

Disse Cesarina Vighy, divenuta scrittrice solo dopo essersi ammalata di Sla:
Scrivo e scrivo, con una facilità e una felicità mai provate prima: quasi ho dimenticato la sfida a resistere per riversare nel mio libro quello che mi è capitato nella vita di bello e di brutto, entro ed esco dalla malattia come un fantasma attraversa i muri, beffando chi si ferma davanti a una porta chiusa. Ho qualcosa di meglio da fare, io: recuperare la mia vita che sembrava ormai spezzata in due tronconi, prima della malattia e dopo la malattia. Solo ora ho scoperto che ci si può stare anche "dentro", profittando di quel dono avvelenato che ci hanno fatto: mantenere la mente lucida, forse più lucida di prima, sino alla fine. Via il pigiama, lavarsi o farsi lavare, vestirsi o farsi vestire: è un viaggio che ci aspetta, lungo o corto che sia. I miracoli li facciamo noi.

Il senso della lotta contro la segregazione del carcere può assomigliare a quella che si ingaggia contro il sequestro del corpo, ed è ancora Foa a rendercela evidente:
Direi che è una cosa un po' analoga ad una lotta sociale o politica. Uno pensa che una lotta sociale o politica serva a cambiare qualcosa. Però serve anche in sé. Il lottare cambia te stesso nel momento in cui lotti, non soltanto pensando ai risultati di questa lotta. A me pareva allora che il calcolo matematico, che può servire a tante cose, serviva a noi che lo facevamo. Il fatto di calcolare è in se stesso un fatto di emancipazione.

Per una volta, non è la libertà ad essere terapeutica, ma è la cura di sé che rende liberi.



Bibliografia utile:
Susanna Terracini - Matematica e liberazione, in Lettera matematica n.60/2006, pp. 39-50
Donal O’Shea – La congettura di Poincarè - BUR, 2008
Jean-Dominique Bauby - Lo scafandro e la farfalla - Ponte alle grazie, 1997
Cesarina Vighy – L’ultima estate - Fazi, 2009


I Vanna Marchi delle staminali

Speculazioni e truffe anche su facebook

Se ne sono occupati in tanti, ultimi in ordine di tempo "Le iene" su Italia1 e Panorama.
Ho deciso di riprodurre qui sotto estratti dall'inchiesta riguardante la BEIKE EUROPE, sede a Lugano e viaggi delle illusioni in Cina e Thailandia, e la XCELL, sede a Colonia.
Questo perchè molti malati, non solo di SLA, in tutta Italia sono già stati vittime di raggiri e hanno rischiato di compromettere ulteriormente il loro stato di salute sottoponendosi a iniezioni (nel migliore dei casi) di staminali non controllate al di fuori di qualunque protocollo validato, senza alcun monitoraggio successivo al viaggio. Queste "ditte commerciali"vantano percentuali di successo miracolose senza esibire uno straccio di prova E VENDONO LE LORO ILLUSIONI A PREZZI OSCILLANTI TRA I 10 E I 40.000 EURO

A tutt'oggi su qualunque sito web si occupi di SLA o sperimentazioni a base di staminali è impossibile non imbattersi in link pubblicitari che veicolano su Beike e XCell e su Facebook sono numerose le pagine "sotto copertura" che fungono da esca per i pesci, giocando sul facile argomento che la ricerca sulle staminali non è libera, questo sarebbe responsabilità diretta delle multinazionali del farmaco e chiunque, Beike e XCell comprese, proponga terapie con staminali fa un'opera meritoria che non può che dare fastidio e viene perciò perseguitato. Col che , oltre a denaro facile, raccolgono anche solidarietà a buon mercato.
IN REALTA' E' PROPRIO L'ASSENZA DI UNA RICERCA SERIA, CONTROLLATA E PUBBLICAMENTE FINANZIATA CHE ALIMENTA QUESTE IGNOBILI SPECULAZIONI AL COSTO DI 20-40.000 EURO A VIAGGIO.

METTO SULL'AVVISO TUTTI I MALATI DALL'ABBOCCARE E ADERIRE A QUESTE PAGINE, APERTE DI VOLTA IN VOLTA O DIRETTAMENTE DAI RESPONSABILI DELLE "DITTE" IN QUESTIONE, OPPURE DALLE STESSE PERSONE SOTTO PROFILI FALSI (NESSUNA FOTO PERSONALE E NESSUNA INFORMAZIONE CHE NE RIVELI LA VERA IDENTITA').
ATTENTI DUNQUE ALLE PAGINE CHE PUBBLICIZZANO TERAPIE CON STAMINALI E ALLE RICHIESTE DI "AMICIZIA" NON VERIFICABILI. IN FATTO DI CINISMO FANNO IMPALLIDIRE VANNA MARCHI.

STAMINALI: COSI' ABBIAMO SMASCHERATO I LADRI DI SPERANZA
(da Panorama del 21.1.2010)

Ci hanno promesso che si sarebbero presi cura di nostro cugino Andrea, malato di distrofia muscolare e condannato alla sedia a rotelle. Che zio Claudio, 72enne affetto da Alzheimer, avrebbe ricominciato a spegnere il gas e a chiudere la porta di casa. Sarebbe bastato portarli in Ucraina, Svizzera, Thailandia o Cina e sottoporli a qualche iniezione di cellule staminali. Prelevate da cordoni ombelicali, midollo osseo di adulti, feti umani o persino da montoni e agnelli. E staccando assegni che oscillano da 7.500 a 36 mila euro.
Per fortuna Andrea, Ilenia e zio Claudio non esistono. Esistono, invece, le “cliniche della speranza” che con l’aiuto delle staminali promettono di sconfiggere dall’epilessia alla calvizie, dal Parkinson allo stress, dalla sclerosi multipla all’impotenza sessuale.


XCELL- GERMANIA Il sito italiano di questa clinica (privata) con sedi a Colonia e a Düsseldorf parla di scientificità e serietà. “Dal 2007″ si legge sulla home page “più di 1.600 pazienti affetti dalle patologie più diverse si sono sottoposti alla nostra sicura terapia”. Peccato che dei risultati non ci sia traccia su alcuna rivista scientifica. Fra le malattie curate compaiono anche quelle neurodegenerative. Ci basta recuperare i dati fasulli di zio Claudio, 72 anni, farlo ammalare di Parkinson e compilare un modulo online per ricevere via email una risposta in meno di 24 ore. La dottoressa Dominique Hossner nel suo italiano maccheronico spiega che la struttura tedesca adotta “standard clinici e di laboratorio regolamentati dalla legge tedesca in materia di interventi medici”. Poi ci invita a ricontattarla per una visita gratuita, dopo si deciderà il resto del percorso. Questa volta non richiameremo: abbiamo già capito di essere entrati in un tunnel di superficialità e approssimazione. Perché basta un’altra rapida ricerca su internet per scoprire che il testo della email è identico a quello spedito negli ultimi due anni a decine di altri potenziali pazienti.
“Manca qualsiasi prova sull’efficacia di questo tipo di trapianto e purtroppo per effettuare questi trattamenti non serve alcuna autorizzazione” spiega Reinhard Prior, docente di neurologia all’Università di Düsseldorf ed esperto mondiale di patologie neurodegenerative. In effetti i dettagli della cura per zio Claudio forniti dalla dottoressa Hossner lasciano più di un dubbio: “Si prelevano le staminali dal midollo osseo del paziente”. Una volta trapiantate, “sono in grado di trasformarsi e rigenerare il tessuto danneggiato”. Sembra miracoloso, ma non lo è. “Le malattie come Alzheimer e Parkinson attaccano il sistema nervoso” ribatte Angelo Vescovi, professore di biologia cellulare all’Università di Milano-Bicocca. “Sostenere che staminali impiantate nel midollo osseo possano arrivare nella sede lesionata e ripararla mi pare fantascienza“.


BEIKE- SVIZZERA A Lugano una palazzina di uffici a pochi passi dal casinò ospita la sede europea della Beike, colosso cinese della ricerca medica che dal 2006 offre anche ai pazienti europei terapie a base di cellule staminali presso le sue cliniche di Shenzen in Cina e Bangkok in Thailandia. Così, per vederci più chiaro, abbiamo aggiunto all’elenco l’Alzheimer di zio Claudio e la distrofia muscolare del cugino Andrea. A contattarci sono il vicepresidente della Beike Europe Andrea Mazzoleni, testimonial della società, e Gianni Demarin, responsabile della comunicazione. I due lavorano insieme da tre anni. Demarin ha un passato da dj e rappresentante di abbigliamento. Mazzoleni, 56 anni, ha in curriculum iniziative imprenditoriali, una candidatura alla Camera nel 2006 per la circoscrizione Esteri con il Partito italiani nel mondo e un incidente giudiziario: alla fine del 2007 la clinica Gulliver di Lugano, di cui era direttore amministrativo, è stata accusata dalla magistratura elvetica di truffa ai danni delle casse malati per trattamenti in day hospital dai rimborsi gonfiati. Per Mazzoleni, rimasto in carcere 25 giorni, l’inchiesta penale si è conclusa con “non luogo a procedere”. Ma gli è stata revocata la licenza da infermiere e la Gulliver è stata chiusa. Fissiamo un appuntamento con lui per approfondire le cure per nostro zio.
Il vicepresidente chiarisce subito: “Noi mettiamo solo in contatto i clienti con la struttura. Analisi, screening e operazioni dipendono dai cinesi. E non sapete quanto siano diventati pignoli“. In effetti la Beike sostiene di bocciare il 60 per cento dei candidati alle sue cure. Ma evidentemente zio Claudio rientra fra coloro che possono migliorare: se fosse così, si tratterebbe di un caso unico nella storia medica, visto che i decorsi, per un Alzheimer che galoppa da quattro anni, sono giudicati irreversibili dalla comunità scientifica. “I miracoli non li fanno nemmeno le cellule staminali, altrimenti avremmo già preso 24 premi Nobel” ridacchia Mazzoleni “Quelle che usiamo noi comunque sono assolutamente sicure. Con le nostre cure per settimane le persone sono riuscite a fare una vita normale”. Difficile crederci, se si sentono gli esperti: “Le terapie proposte dalla Beike si basano sull’iniezione di cellule estratte dal sangue dei cordoni ombelicali” spiega Giulio Cossu, professore di istologia alla Statale di Milano e membro del comitato clinico della International society for the stemcell research, che ha elaborato le linee guida della sperimentazione sulle staminali in Europa. “Ma le cellule cordonali non sono in grado di riprodurre neuroni e non possono avere effetti su pazienti afflitti da Parkinson o Alzheimer” (...)

per il reportage completo fai copia e incolla e vai al link:
http://www.lucacoscioni.it/rassegnastampa/staminali-cos-abbiamo-smascherato-i-ladri-di-speranza

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Buon viaggio, mamma


Lunedì 23 agosto la mia mamma è partita per l'ultimo viaggio.
Questo il mio saluto pubblico.


Si diventa un po’ tutti buoni, a volte addirittura santi, o comunque quasi perfetti, dopo.

Mamma no, lei per me era meravigliosamente imperfetta. Arrendevole quando, ai miei occhi, avrebbe dovuto combattere, cocciuta quando l’avrei voluta dimessa. Mi irritavano, le sue imperfezioni, e per un po’, quando hanno riguardato le scelte della vita che in famiglia hanno contato, le ho anche un po’ odiate. Poi ho imparato a guardarle per quello che erano: i suoi tratti, il suo modo di essere, insieme con la dolcezza e la tenerezza con cui mi ha cresciuto; me, forse ancor più che Marina o Gianni, perché ero “l’ultima ruota del carro”, il più piccolo, come ha continuato a dire anche quando ormai di anni sulle spalle ne avevo già un bel po’.


Ha vissuto una vita piena, in parte anche avventurosa. L’ho pensata a lungo come una vita troppo all’ombra di papà, poi ho capito che le sue scelte le ha comunque sempre compiute, che era molto più determinata e forte di quel che poteva apparire ai miei occhi. Non si finisce mai di conoscere le persone, neanche la propria madre.


Ha avuto alcuni rimpianti, alcuni intimi e di cui è saggio rispettarne la riservatezza, altri espressi: avrebbe ad esempio tanto voluto tornare in Africa, ripercorrere quelle strade e quei luoghi divenuti a lei familiari. Avrebbe voluto continuare a dipingere e la sua mano malferma non glielo ha più permesso. Non si capacitava del correre degli anni, aveva sempre la stessa voglia di fare e un po’ si stupiva dello spirito giovane e vitale che continuava ad accompagnarla, a dispetto dell’anagrafe.


Quando mi sono ammalato mi sono confidato con tutti e non con lei. Ho inteso proteggerla dal dolore per la mia infermità, e quando, cocciuta com’era, alla verità c’è arrivata per conto suo, me l’ha resa lieve, anche con i suoi silenzi.

Senza nominarla mai, poco tempo fa mi ha parlato della malattia, esortandomi a non mollare mai. L’ho rassicurata. Le ho raccontato di come si possa vivere pienamente nonostante la malattia, anche e soprattutto quando è il corpo ad abbandonarti, ma lo spirito è intatto, e proprio attraverso la malattia può crescere e volare libero. Lei mi ha trasmesso forza e mi piace pensare di averle restituito un pizzico di serenità.


Il mio ultimo ricordo la vede seduta su una sdraio, nel mio giardino, a tratti un po’ svanita, come ultimamente a volte le capitava, ma sorridente e felice della giornata trascorsa insieme.

Qualcuno mi ha riferito di una sua recentissima frase che dice della sua consapevolezza di essere vicina all’addio, e mi ha fatto pensare alla serenità di quegli anziani nativi americani che, almeno così ci raccontano, saprebbero riconoscere quando è arrivato il momento giusto per andarsene.


Così mi piace ricordarla, e mi piace anche pensare, pur da non credente quale sono, che qualcosa di lei, adesso, si ricongiunga, prima ancora che con papà, con cui dopotutto ha vissuto l’intera sua vita, con sua sorella Miranda, andatasene troppo presto e con la quale troppo poco, in vita, le è stato permesso condividere.

Sarebbe il modo migliore, credo, per iniziare l’ultimo viaggio.

Buon viaggio, mamma.



Mamma e papà, in Africa, anni '70


Mine vaganti...


Non farti mai dire dagli altri chi devi amare, e chi devi odiare.
Sbaglia per conto tuo, sempre.

Non è nè una commedia sulla diversità, nè una passerella per giovani divi rampanti, sostenuti da vecchie colonne del palcoscenico, come invece vorrebbe far credere il pessimo trailer confezionato dalla distribuzione, tutto giocato su scene che, fuori contesto, paiono lo spot del Gay Pride, e che dunque vi risparmierò.
Il regista Ferzan Ozpetek è assai più coerente di chi si occupa di vendere i suoi film, e Mine Vaganti è fondamentalmente un'opera sulla libertà, in un'epoca in cui più la si nomina, meno si sa cosa sia.
Sulla faticosa ricerca della libertà interiore, innanzitutto, che Tommaso (uno Scamarcio finalmente cresciuto professionalmente) compie guidato dalla nonna (Ilaria Occhini), musa ispiratrice, mina vagante per eccellenza, protagonista a sua volta di una storia parallela intrigante, e ben giocata attraverso frequenti flash back.

Accanto ad un Ennio Fantaschini un po' di maniera, svetta una Lunetta Savino stupenda, affiancata da uno stuolo di comprimari di lusso.
Chiude un finale "non chiuso", incompiuto cioè, come è stato da qualcuno definito, ma che è in realtà la cornice poetica, la ciliegina su una prosa tutt'altro che irrisolta.
Il tutto sostenuto da una recitazione mai sopra le righe e da una sceneggiatura da Oscar, scritta a quattro mani con Ivan Cotroneo.

Solo ad Almodovar riescono tali sintesi di spessore e leggerezza. E scusate se è poco.




Gli amori impossibili non finiscono mai.
Sono quelli che durano per sempre.


Di che parla questo libro che non ti vogliono pubblicare?
Parla di due persone che non stanno più insieme. Una soffre, l'altra no. Però forse quello che racconta veramente è che non bisogna aver paura di lasciare.
Perchè tutto quello che conta, non ci lascia mai, anche quando non vogliamo.


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