Riporto ampi stralci della lunga intervista che mi è stata fatta dal giornale locale della città dove sono nato, per lo stesso motivo per cui l'ho rilasciata: la speranza che possa essere di aiuto a chi si trova ad affrontare la stessa esperienza. Se volete commentare, fatelo con le vostre personali riflessioni sul tema. Contrariamente a quel potrebbe sembrare, ho ancora molto da imparare.Come medico, hai sempre operato nel campo delle malattie mentali e delle tossicodipendenze, vero?Sì; il giorno prima dell’Esame di Stato ho iniziato il Servizio civile al Centro di Salute mentale e al Sert di Fossano. Quella è stata la prima esperienza formativa e mi ha insegnato moltissimo, perché è stato il primo contatto con la malattia mentale. Partivo al mattino con il pulmino, caricavo una dozzina di utenti e li portavo al Centro, il pomeriggio mi occupavo del Sert. È stata una bella palestra. Finita l’obiezione di coscienza ci ho lavorato ancora circa un anno. A quel punto ho pensato però che nella grande città avrei potuto confrontarmi con realtà più impegnative, di maggior spessore. Così, rispetto al discorso delle tossicodipendenze, sono finito al Gruppo Abele, dove ho conosciuto mia moglie e l’ho “portata via” (si occupava dell’area lavoro e all’epoca era presidente della cooperativa costituita all’interno del Gruppo). Don Ciotti mi propose di fermarmi un paio d’anni e quella fu un’esperienza importante. Poi mi sono stabilito nel Torinese. Nell’86 io e Francesca ci siamo sposati e l’anno dopo ho vinto il concorso all’Asl. Quattro anni dopo nasceva nostra figlia Micol.
Tu adesso sei vicino alla pensione?No, io sono “giovane” (ride); sono del ‘55. Non ci pensavo alla pensione, perché mi è sempre piaciuto molto il lavoro che faccio e poi perché ho avuto la fortuna di trovarmi bene con i colleghi. In questi venti-venticinque anni abbiamo cercato di inventare continuamente esperienze nuove, progetti, esplorare campi non ancora battuti e questo, dal punto di vista della gratificazione personale, è importante. E poi perché ho un sacco di idee e quindi, sicuramente, non pensavo alla pensione.
La malattia però ti ha messo di fronte a questa scelta.Certo. La malattia mi ha obbligato a chiudere con tutto questo. Perché ovviamente ti vengono meno tutti gli stimoli e gli interessi che avevi fino al giorno prima e sei costretto a misurarti con una realtà completamente nuova, che ti richiede di adattarti e di scoprire nuove motivazioni perché altrimenti non hai più futuro. Se pensi di andare avanti con la vita di prima, rischi la depressione. Devi per forza progettare la tua esperienza “oltre”.
Quando sono comparsi i primi sintomi della malattia?Il tutto è cominciato alla fine del febbraio dello scorso anno.
Veloce.Velocissimo. Ero in giardino. Faccio per saltare un muretto e mi sento impacciato. Mi dico: “Devo proprio riprendere a fare movimento”. Mi metto una tuta e vado a correre. Ma nel giro di 15 giorni mi accorgo che non è soltanto mancanza di forma e di movimento. Comincio a sentire debolezza nelle gambe, a zoppicare. Da Natale avevo anche mal di schiena; un fisiatra mi trova un’ernia lombare (questo è uno dei casi più frequenti di errore diagnostico); faccio infiltrazioni, ma il rimedio non funziona. Zoppico; comincio a non correre più...
Quando hai cominciato a pensare a qualcosa di serio?Fin da subito, ma il primo a mettermi in guardia è stato un chiropratico, che mi ha consigliato di rivolgermi ad un neurochirurgo: secondo lui era da escludere un problema di tipo meccanico. Faccio quindi la priva visita neurologica e nel giro di cinque giorni ho praticamente la diagnosi. Eravamo ai primi di giugno. Vengo inviato al Centro Sla delle Molinette. Purtroppo per la Sla non esistono indicatori oggettivi della malattia: la diagnosi si fa praticamente per esclusione e seguendone l’evoluzione. Si esclude che ci sia un problema di tipo meccanico, si esclude la sclerosi multipla, lesioni evidenziabili, si esclude che ci siano infezioni... La conferma si avrà poi col tempo. La diagnosi media avviene infatti a un anno e mezzo dalla comparsa dei primi sintomi. Il fatto che io abbia saputo - con sufficiente consapevolezza - nel giro di tre-quattro mesi, che poteva trattarsi di una malattia degenerativa, è una eccezione.
Purtroppo, nel corso di questi mesi, è successo un fatto che mi ha fortemente illuso. Nell’estate, dopo un esame sierologico che si fa per escludere eventuali infezioni, è emersa la positività ad un batterio che si trasmette con la puntura delle zecche. Sono quindi stato trattato con una forte dose di antibiotici in vena. Il fatto è che questi antibiotici, in una prima somministrazione, possono avere un effetto benefico transitorio a prescindere da un’infezione. Io ai primi di settembre camminavo di nuovo. Mi sono illuso.
Eri avvertito di questo?No. Oltretutto, avendo questa positività, ho davvero pensato di essermi preso un’infezione dalle zecche facendo giardinaggio... Ho pensato che magari non avrei recuperato al 100 per cento, ma ho cominciato a convincermi che non si trattasse di una malattia degenerativa. Dopo un mese è tornato tutto come prima...
La diagnosi definitiva, dunque, è venuta dopo l’illusione che si trattasse di un’infezione.Sì, verso ottobre. Ho detto al neurologo: “Secondo me è Sla, sciogliamo la riserva”. Certificare questa situazione per me voleva dire cominciare a metter mano alla mia vita, oltre che a una serie di cose pratiche: chiedere la visita di invalidità, ragionare del mio lavoro, della pensione, ecc... Il neurologo ha quindi deciso di mettere da parte le eccessive prudenze e ha certificato la malattia. Mi hanno avvertito di non pensare immediatamente in modo tragico, catastrofico, perché ogni caso è a sé; soltanto il tempo potrà dire qual è l’evoluzione. Cercano di farti capire che la vita non finisce lì, che non si tratta di un tumore... Del resto è proprio così. Ci sono persone che, dopo dieci anni, parlano ancora, non hanno ancora fatto la tracheotomia, viaggiano in carrozzella, sono attivi.
Il tuo caso come si pone?La mia è una forma classica di sclerosi laterale amiotrofica, di quelle che portano a morire per insufficienza respiratoria nell’arco di due-tre anni dall’esordio. Salvo che tu decida, un po’ prima della prima crisi respiratoria, di fare la tracheotomia, di mettere il tubo e farti praticare la ventilazione artificiale. A quel punto, salvo complicazioni, in teoria la tua sopravvivenza è garantita sine die.
Quando si deve prendere la decisione relativa alla tracheotomia?Dipende da come vanno le cose. Nel mio caso la malattia è partita dalle gambe nel febbraio 2009 (per altri comincia dalle braccia; per le donne, in particolare, spesso parte dalla parola); a novembre ho cominciato a spostarmi in carrozzella. In sei-sette mesi ho perso dunque l’uso delle gambe. A gennaio ho cominciato ad avere problemi a scrivere e a giugno-luglio mi si sono bloccate le mani.
Dunque tu non puoi scrivere al computer?Uso la tastiera virtuale; muovo il mouse con la mano destra e clicco con la sinistra. Da febbraio, marzo ho avuto un calo di voce e poi difficoltà a pronunciare alcune lettere. Credo che a fine anno avrò forti difficoltà a comunicare e, per uno come me, che ama tanto parlare, è terribile.
Lo immagino.Se l’andamento è di questo tipo, il passo successivo è la difficoltà ad alimentarsi. Per cui a quel punto, per evitare di andare sotto peso o di avere polmoniti da ingestione di alimenti, tocca fare la Peg, cioè inserire, tramite un intervento, un tubicino che consente di raggiungere direttamente lo stomaco. Quasi contemporaneamente - o prima, o dopo - se si indeboliscono e poi si bloccano i muscoli respiratori, si cominciano ad avere difficoltà respiratorie. Il primo passo è la ventilazione notturna, perché dormendo si può andare in ipossia, per cui si comincia con una ventilazione esterna (le maschere), prima di mettere il tubo. Il problema è che una crisi respiratoria grave può insorgere anche senza grandi segni premonitori, per cui conviene anticipare questa scelta.
Tu hai già preso una decisione?Sì; io ho iniziato da tempo a pensarci. Il mio percorso è stato molto difficile. Nell’estate, sia prima che dopo l’illusione di poter curare l’infezione e guarire, ho pensato al suicidio... Perché la prospettiva di vita in un letto, immobile, con la possibilità di comunicare soltanto con gli occhi, magari assistito da badanti e infermiere, mi aveva fatto dire: “No, quella non è vita. La faccio finita prima, con l’aiuto di qualche amico collega”. Poi, una volta avuta la conferma della malattia, mi sono preso tempo per riflettere. Un approfondimento che è durato un paio di mesi. Mi sono detto: “Datti tempo”. Io sono sempre stato un carattere abbastanza impulsivo; faccio fatica a fermarmi per assumere decisioni consapevoli e meditate. L’impulso maggiore a decidere è venuto da Francesca, che mi ha detto: “Io ci sono; qualsiasi decisione tu prenda io ci sono”. Non è una cosa così comune. Molti malati sono rimasti soli perché chi gli era accanto non se l’è sentita di intraprendere un percorso così difficile. Ho capito che per lei sarebbe stato molto più duro immaginare che io rinunciassi a vivere, rifiutando l’intervento di tracheotomia. Inoltre Francesca mi ha consentito di uscire da un vicolo cieco che si presenta a chiunque abbia di fronte la prospettiva di una grave invalidità, e si trovi a dover scegliere tra vivere o morire. E cioè il fatto che man mano che l’invalidità avanza non ci si sente più persona, cioè non ci si identifica più con la propria storia, con quel che si è. Interviene un problema enorme di identità. Non sai più chi sei. Nel momento in cui diventi un disabile, tendi a svalutare tutto quello che sei stato. Per questo devi riuscire ad avere intorno a te delle persone che ti fanno da specchio e ti rimandano che tu sei sempre tu, anche se non cammini, se non parli, non mangi. Se riesci a mantenere la mente lucida, se continui a poter comunicare, la tua integrità come persona è assolutamente preservata. Questo ti dà una spinta e una consapevolezza per sopravvivere. Io ho la fortuna di passare attraverso questa esperienza.
Ne parlo con difficoltà perché un conto è quello che tu senti con te stesso, un conto è vedere il peso, la fatica esistenziale ma anche quotidiana che si accolla chi ti sta intorno. Questo mi fa fare i conti con sensi di colpa che non hanno ragione di essere, ma che esistono. E quindi, è una bella battaglia. Però, fondamentalmente, tutto questo mi ha permesso, nel giro di due mesi, di dire: “Vado avanti”.
Dicevi che non è assolutamente una decisione scontata.No. La cosa che nessuno sa è che in Italia, pure uno dei Paesi in cui si fa di più per le malattie degenerative, su 100 malati soltanto 15 decidono di fare la tracheo; gli altri scelgono di morire. A me piacerebbe concorrere a far sì che si inverta questa percentuale.
Come pensi che si possa invertire questa tendenza?Devi arrivare a pensare che la vita ti può ancora dare molto. Può essere molto retorico dire: “Questa è una nuova esperienza, che mi ha portato via tanto ma, come tutte le esperienze, mi può dare molto”. Può essere una frase retorica di cui cerchi di autoconvincerti, oppure può essere qualcosa a cui arrivi perché l’hai elaborato, perché hai scavato in profondità e diventa una tua realtà mentale, anziché qualcosa di posticcio. Ma per farlo servono alcune condizioni. Intanto devi avere già un atteggiamento di un certo tipo nei confronti della vita. E poi devi avere qualcuno che ti ama, perché noi siamo le relazioni che intratteniamo; soli e isolati diventiamo degli oggetti, che non hanno più nessuna possibilità di dare un senso alle cose che succedono. La terza condizione - ed è quella che spesso manca - è che le persone che ti amano devono essere a loro volta supportate perché altrimenti rischiano di ammalarsi con te. Servono sostegni di tipo professionale e anche economico, che consentano di condurre insieme una vita sufficientemente degna. Io conosco degli ammalati i cui famigliari non ricordano più l’ultima volta che hanno dormito tre ore di seguito per notte oppure i cui famigliari da anni non escono di casa. Perché con l’avanzare della malattia ci vuole un’assistenza 24 ore su 24. Una mia amica sarda, economista, che assiste la madre, non esce più di casa perché per ben tre volte solo il suo intervento tempestivo ha impedito alla madre di soccombere alle crisi respiratorie. “E se io esco e succede di nuovo? - dice la mia amica - non potrei mai perdonarmelo”. La mia amica così non esce più.
Manca addirittura l’assistenza domiciliare?Sì, e non si tratta di casi isolati. Qua e là ci sono isole felici, esperienze interessanti, ma il vissuto dei 5 mila malati di Sla e delle migliaia di persone non autosufficienti è quello dell’abbandono sia dal punto di vista economico che assistenziale.
Qui vicino abita una ragazza di 22 anni che quattro anni fa ha avuto un incidente ed è stata in una situazione di coma profondo; adesso è in stato di “minima coscienza”. Ha gli occhi aperti e reagisce in modo elementare agli stimoli dei genitori. Servirebbe un fisioterapista a domicilio. Il papà dice: “Noi la stimoliamo, ma non ce la facciamo più”. Per alimentare la speranza bisogna che le istituzioni mettano in campo dei servizi adeguati, che ci sia la possibilità che qualcuno venga a casa e metta in campo interventi riabilitativi -o di altro genere - che possano dare un senso al fatto che uno sceglie di continuare a vivere.
Se l’85 per cento dei malati sceglie di non fare la tracheotomia, è perché non se la sente di continuare a vivere in quelle condizioni; oppure se la sente, ma è solo, non ha chi gli vuol bene. Oppure sa che non avrebbe il sostegno adeguato, né lui né i suoi cari, per poter andare avanti. Ma c’è un altro fatto: anche se tutte queste tre condizioni ci fossero, sai che dopo aver preso la decisione di andare avanti non puoi tornare indietro, non puoi più “staccare la spina”.
Tu credi che l’irreversibilità della scelta sia uno dei motivi che fa dire no alla tracheotomia e quindi rinunciare alla vita. Credo di sì. Io conosco un caro amico che ha già deciso di non fare la tracheotomia proprio per questi motivi.
Come associazioni vi state battendo perché cambi qualcosa?Questo è un discorso molto difficile, perché le coscienze sono divise. Io credo di poter dire, avendo conosciuto molti malati, che chi vive sulla propria pelle questa situazione non ragiona in modo ideologico o integralista. Il diritto della persona alla vita comprende anche il diritto a poter morire serenamente, adeguandola al proprio personale significato della vita.
La vita non sempre e comunque, ma una vita degna di essere vissuta. Questo presuppone il diritto inalienabile a scegliere il proprio destino. Ma anche nelle nostre associazioni, se parli di autodeterminazione passi per uno che lotta per la morte, passi per un nichilista... Questa è una forma di coartazione, molto diffusa, anche tra gli addetti ai lavori. Purtroppo, quando si fanno discorsi di questo tipo, si tende a schierarsi e a semplificare qualcosa che invece è molto complesso.
E tu, nonostante tutto, te la senti di dire sì alla tracheotomia, di andare avanti.Sì. Anche se parlare di queste cose mi emoziona, in realtà io ho un atteggiamento molto curioso per cui io mi diverto ogni giorno per quello che faccio. Mi divertivo prima e continuo a divertirmi adesso. E quindi per me è abbastanza naturale non rinunciare a vivere, a meno che, appunto, non ti si prospettino le condizioni che dicevo prima, per la mancanza di amore e di sostegno che ti impediscono di affrontare la vita con questo spirito. Io so benissimo che, rispetto agli altri malati, sono un privilegiato. Per tutte queste cose me la sento. Assolutamente.
Ora veniamo a qualcosa di più... facile. Appena sei venuto a conoscenza di questa tua condizione, tu ti sei messo in contatto con le associazioni che se ne occupano, a informarti.Sì. Quando, alla fine del 2009, ho finito quel paio di mesi di “quarantena”, mi sono iscritto a un forum nazionale (Sla Italia) che vede la partecipazione di qualche centinaio di malati o loro famigliari e che consente di comunicare in tempo reale. È una sorta di gruppo di auto-aiuto ed è anche una fonte interessante di aiuto tecnico. Ho cominciato a conoscere le storie e le situazioni di molti malati e contemporaneamente ho reso pubblica la mia condizione. Io non avevo mai fatto mistero della mia malattia (al lavoro, con gli amici), ma quello è stato il momento in cui ho iniziato a raccontare la mia storia, a portare la mia testimonianza.
Inoltre mi sono chiesto che cosa potevo fare io, come medico, per dare un senso al mio “continuare a esserci” e per continuare a fare quello che ho sempre fatto. In fondo, da medico, ho sempre cercato di mettermi dall’altra parte della scrivania. In questo caso è tutto molto più semplice, perché adesso dall’altra parte della scrivania ci sono anch’io. E quindi ho una credibilità ed una possibilità di capire molto maggiore di prima.
E ti sei fatto promotore di un nuovo blog.Sì, con una ragazza di Alghero, un avvocato di Roma e un collega di Caserta ho aperto una modalità diversa, con l’obiettivo di dare sostegno, di fare denuncia e di offrire un’informazione corretta. Nel giro di venti giorni si sono iscritti in cinque mila. Una cosa assolutamente inattesa, non preventivata. Per accedervi bisogna essere iscritti a Facebook.
Hai voluto metterti in gioco anche come medico.Sì. Perché quello che mi interessa non è solo conoscere gli altri malati o raccogliere fondi da inviare a qualche ente di ricerca (che spesso, ahimè, adottano metodi clientelari), ma cercare di lavorare, di far crescere il ruolo pubblico sia nel campo della ricerca che nell’organizzazione dei servizi. Ho parlato con i colleghi che mi hanno in cura. Ho spiegato che mi sarebbe piaciuto fare un’indagine in Piemonte per conoscere il livello assistenziale reale; quindi incrociare questo dato con quello che viene dichiarato dalle istituzioni socio-sanitarie per ottenere una fotografia sia delle esperienze pilota - che pure ci sono e funzionano - e sia delle enormi criticità, per poi provare ad immaginare un progetto di intervento il più completo possibile.
E chi si occuperebbe di questa indagine?Quando ho prospettato questa idea al prof. Adriano Chiò (docente universitario, uno dei massimi esperti di Sla, che ha aperto e dirige il Centro Sla alle Molinette), ho saputo che esiste un progetto interregionale che si propone, in un biennio, di disegnare e sperimentare la rete territoriale di assistenza alle malattie neuromuscolari. Contemporaneamente, nel dicembre scorso, l’allora assessore regionale alla Salute Eleonora Artesio aveva identificato, seppure genericamente, la rete territoriale di assistenza a queste malattie e aveva istituito due centri di riferimento a Torino e Novara. Tutto questo fa sì che in Piemonte, più che in altre regioni, le condizioni di partenza siano interessanti.
Dunque ti occuperai tu di questo progetto interregionale.Io mi sono candidato a portarlo avanti. Ho cominciato a lavorarci mettendo insieme un piccolo gruppo di lavoro: una dottoranda in Scienze sociali, ad esempio, che mi sta aiutando a mettere giù un questionario da somministrare a tutti i malati. L’idea è di partire con il primo step del progetto. Se riesco a farlo come dipendente pubblico bene, anche se ci sono un mare di difficoltà burocratiche, altrimenti lo faccio a livello di volontariato. Questa è la prima cosa a cui tengo parecchio.
C’è una seconda cosa?Sì. Ho cercato di mettere in piedi alcune iniziative anche di visibilità con l’obiettivo, oltre che di raccogliere fondi, anche di riuscire a mettere insieme le diverse associazioni. Ho cercato di impostare un discorso che non riguardi soltanto questa patologia specifica, ma che guardi a tutte le patologie che hanno bisogni socio-sanitari molto simili e a tutte le gravi disabilità. Cercando volontari per realizzare queste iniziative, sono venuto in contatto con altre associazioni, con l’Apasla - Associazione piemontese per l’assistenza alla Sla - che, a differenza di altre, ha un taglio molto operativo ed è un punto di riferimento concreto per i malati.
È con questi volontari che hai realizzato il concerto di luglio al Lingotto?Sì. A febbraio ho conosciuto Gianluca Fantelli, cantautore di Bologna affetto da Sla. Gli ho detto: “Sei l’unico artista che può essere testimonial nazionale. Ti faccio venire a cantare a Torino”. E così, con l’aiuto di un piccolo gruppo di volontari e di un consigliere comunale di Torino, abbiamo messo in piedi un progetto e il concerto di luglio. Contemporaneamente, visto che erano disattesi una serie di provvedimenti molto importanti (tra cui l’assegno di cura e l’istituzione dell’assistente famigliare esperto), abbiamo organizzato a giugno un’iniziativa di protesta, in concomitanza con quella nazionale. Io sono andato a Roma per chiedere l’approvazione dei nuovi Lea (Livelli essenziali di assistenza), mentre a Torino altri malati hanno manifestato sotto la Regione. Abbiamo ottenuto l’apertura di un tavolo di confronto permanente.
Un tavolo non si nega a nessuno...Sì: tavoli, documenti... Quello che io vorrei, invece, sono incontri periodici in cui avanzare proposte concrete, sostenibili, a cui non si può dire di no a meno di ammettere la mancanza evidente di volontà politica. Dopo l’iniziativa di luglio, comunque, sono stati sbloccati gli assegni ed è stata accettata l’idea di istituire un primo corso per i badanti esperti.
A differenza dell’iniziativa del Lingotto (dove il concerto era accompagnato da una conferenza), a Venaria Reale intendiamo fare una cosa più leggera. Uno spettacolo senza chiacchiere, senza interventi. Mi sono fatto mandare un reportage fotografico sulla Sla (molto bello); ci saranno la musica e le canzoni di Gianluca e, per quanto riguarda l’aspetto informativo, distribuiremo un opuscolo che spiega che cos’è la Sla e il senso della manifestazione.
I due concerti sono a sostegno dell’attività che state svolgendo?
Hanno il preciso intento di dare un contributo concreto a tutto quello che ho detto. E, insieme, concorrono a dare un minimo di visibilità ai malati e alle condizioni in cui vivono. Si tratta di occasioni che danno entusiasmo a chi lavora, ai volontari, che motivano. L’importante è che restino sempre uno strumento e non diventino iniziative fini a se stesse.
LUIGINA AMBROGIO - La Fedeltà 12.10.2010
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