Scontro di civiltà

Adro, paese simbolo

Ci sono piccoli grandi avvenimenti che accadono e che, pur nella loro minutezza, si caricano di un grande valore simbolico. Di solito i protagonisti di queste vicende si trovano ad avere a che fare con qualcosa che travalica le loro intenzioni, qualcosa di più grande di loro, con cui non pensavano di dover fare i conti e di cui non si rendono neppure ben conto.
Nella vicenda di Adro, invece, l’impressione è che la posta in gioco sia drammaticamente presente a tutti e che i bambini, i cui genitori non pagano la mensa scolastica, siano gli unici spettatori stupiti e impotenti di qualcosa che passa abbondantemente alcuni metri al di sopra delle loro teste.
I genitori in regola con le bollette, compatti dietro il loro sindaco leghista, si appellano al rispetto delle regole per affermare il ritorno a un senso di comunità forte, identitario, basato sul “noi” contro “gli altri”. Un senso di comunità dove nessun dubbio viene ad incrinare la certezza che, se qualcuno non paga, questa è la prova evidente che chi prega e mangia diverso da noi è qualcuno che si rifiuta di fare comunità, di diventare come noi, dunque si autoesclude e va punito.
Un senso di comunità, dunque, chiuso, che nasce sull’esclusione e sull’indisponibilità a capire perché succede quel che succede, e che delibera di educare l’altro passando attraverso la punizione dei più piccoli, lasciati "giustamente" senza pranzo.
Meglio far loro capire fin da bambini come funzionano le cose, qui da noi.

Di questo i genitori di Adro sono ben consapevoli, avendo votato in massa un sindaco nel cui programma sta scritto che prima vengono gli italiani, poi gli altri.
Quando le navi affondano, sulla scialuppa o si fanno salire prima le donne e i bambini, oppure, appunto, prima noi e poi gli altri.
Negli ospedali, come dice Gino Strada, o si curano tutti, a partire dai più gravi, o si curano prima i nostri e poi gli altri, cioè i nemici. Anzi, i nemici non si curano affatto, perché, una volta guariti, ricominceranno a spararci addosso come prima.
Perché noi abbiamo umanità, loro no, noi siamo costretti a fare la guerra, loro sono terroristi, insomma, noi siamo i buoni e loro i cattivi.
Il comico diceva: non sono io che sono razzista, sono loro che sono meridionali.

Così, unica voce isolata, si è levata quella del benefattore che, saldando il debito, si è dimostrato altrettanto consapevole della necessità di difendere un’altra idea di comunità, aperta, dove il noi include anziché escludere, perché, come dice in una lettera aperta ai suoi concittadini, non possiamo tradire le nostre radici autentiche, quelle di un popolo che ha conosciuto per un secolo le umiliazioni dell’emigrazione e che adesso le ha volute dimenticare troppo in fretta.

Scrive: “Sono figlio di un mezzadro che non aveva soldi ma un infinito patrimonio di dignità. Mi vergogno che proprio il mio paese sia paladino di questo spostare l’asticella dell’intolleranza di un passo all’anno, prima con la taglia, poi con il rifiuto del sostegno regionale, poi con la mensa dei bambini.
Quando facevo le elementari alcuni miei compagni avevano il sostegno del patronato. Noi eravamo poveri, ma non ci siamo mai indignati.
Per me quelli che non pagano sono tutti uguali, anche quando chiudono le aziende senza pagare i fornitori o i dipendenti o le banche. Anche quando girano con i macchinoni e non pagano le tasse, perché anche in quel caso qualcuno paga per loro. Ma che almeno non pretendano di farci la morale e di insegnare la legalità, perché tutti questi begli insegnamenti li stanno dando anche ai loro figli.
Ci sono cose che non si possono comprare.”


(19.4.2010 - già pubblicato in www.iovivoiovivro.it)
photo by Alberto Damilano

Qui siamo

Nulla è cambiato e nulla è più come prima.
Perché questa rabbia?
Perché queste accuse?
Che io finga di non sapere,
che io guardi e non veda.
Che nel mezzo della catastrofe,
quando si imporrebbe una pausa,
lo spettacolo avanzi, la recita non si interrompa.

No, non è paura, ti sbagli, è terrore,
è sollievo che questo orrore non mi riguardi,
che ancora una volta io sia qui, indenne,
Ma non posso negare, io so.
I tuoi piedi pesanti, ogni giorno di più,
le tue gambe contratte,
le cadute continue.
E il respiro affannoso,
la penna incerta,
le parole scandite,
il sorso d’acqua che scende a fatica, ogni giorno di più.

Sono qui, non fuggo specchiandomi in te,
non volgo lo sguardo altrove,
non invoco esorcismi.
Io stampello il tuo incedere monco,
richiudo l’asola e ti allaccio le stringhe
Ti insapono la schiena
E massaggio i tuoi piedi.
Ma pure proseguo i gesti abituali,
le stesse parole, il sorriso un po’ ambiguo che sai.
Non uso frasi di circostanza, non abbasso la voce,
non sussurro lamenti o scongiuri.
E non sgrano il rosario, non prego né maledico.
Non resto in attesa, non corro in cerca di guarigioni improbabili.
Riposo la sera attendendo il mattino,
riparo d’inverno guardando al disgelo,
accompagno la tua malattia come fosse
la prima canizie
tanto temuta.
Come l’incedere di una nuova stagione.

Ti guardo e ti vedo,
mi specchio e ho tenerezza di me,
sento di avere indulgenza per le mie debolezze.
Per noi, per la malattia.
Per i nostri confini
dai quali, eppure,
espatriamo ogni giorno.
Non ci porteremo dietro nulla,
nemmeno il corpo, che credevamo immortale.
Ma ora qui siamo.

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Il vino, i barbari e l'impero


Quando avevo 10 anni veniva a trovarci, dall’America, il cugino David, un personaggio bizzarro, nipote del mio bisnonno emigrato agli inizi del secolo. Negli anni ’60 David era impegnato, col resto della famiglia, e in concorrenza con altri italoamericani come lui, nell’invenzione di quello che Alessandro Baricco ha battezzato il vino hollywoodiano.
Io, che a ottobre di ogni anno, nel cortile di casa, mi divertivo a seguire il lavoro artigianale di spremitura dell’uva, non riuscivo a capacitarmi di come dei produttori di vino californiano possedessero degli stabilimenti che già allora somigliavano più a raffinerie di petrolio che a cantine sociali, che viaggiassero in jet privato e avessero un tavolino prenotato in prima fila nel miglior locale di Las Vegas.
Faceva anche questo parte, insieme con i telefilm di Rin Tin Tin e i fumetti di Blek macigno e il comandante Miki, della costruzione del mio personale e immaginario mito americano presessantottino.
Il mito venne presto spazzato via dalla guerra del Vietnam e sostituito dall’incombente malefica icona dell’imperialismo americano, a cui con coerenza gramsciana associai anche l’aggressione ai valori della cultura enologica operato dai cugini americani.
Baricco, ancora lui, ne ha raccontato la curiosa epopea in poche pagine del suo saggio I Barbari, cogliendo nella metafora della globalizzazione del vino tutti gli aspetti, non necessariamente negativi, delle trasformazioni della modernità .
Il vino hollywoodiano è quello che “ha venduto l’anima”: colore brillante, di gusto immediato, semplice, al primo sorso c’è già tutto ma tutto lì si esaurisce, si combina male coi cibi elaborati e va benissimo cogli stuzzichini da bar, sempre uguale a se stesso a dispetto delle annate. Pura barbarie.
Ma, sostiene sempre Baricco, la cosa ha un che di rivoluzionario, è la rivolta delle masse escluse dall’aristocrazia italo-francese che deteneva, fino alla II guerra mondiale, il monopolio della produzione, del consumo stesso e della cultura del vino, una cultura appunto aristocratica, con un linguaggio incomprensibile, da iniziati.
Grazie alla fermentazione con l’aria condizionata, possibile a qualunque latitudine, ad una “commercializzazione spinta” e ad un prodotto “facile”, spiegato con un linguaggio semplice (e perciò moderno), il vino, se pure nella sua versione globalizzata, ha invaso il mondo. E dunque grazie all’impegno di imprenditori che nulla sapevano della millenaria arte enologica, ma che tornavano in Italia a copiare i vini delle Langhe per poi stravolgerli con genialità (come il mio strambo cugino David) le masse hanno così potuto invadere territori da cui fino ad allora erano escluse e oggi il vino si beve ovunque, dallo Yemen alla Cambogia. E nulla impedisce ai raffinati cultori della tradizionale cultura del bere di continuare i loro riti millenari.

Ma, c’è un ma che mi arrovella. L’ultimo elemento che è stato determinante, dice ancora l’inguaribile ottimista Baricco, nella diffusione del vino a livello planetario, è stato che ad imporlo è stata la forza di dominio culturale dell’impero, dell’unico impero rimasto dopo la caduta del muro: quello americano.
Se le olive ascolane fossero state inventate in Nebraska, sicuramente oggi le mangerebbero anche in Thailandia.
Domanda: ma allora, scomparse le ideologie, siamo ancora nostro malgrado a fare i conti con l’impero? E ci può essere impero senza imperialismo? Ma il tratto fondamentale della modernità, non era l’inquietante avvento della società liquida, senza più un centro e senza conducente?

Guardiamoci intorno: tutto è cambiato. L’Unione Sovietica non esiste più, l’India si avvia a diventare la terza potenza mondiale e perfino i comunisti cinesi marciano compatti dietro il poco originale slogan “arricchitevi”. E anche da noi il mondo non è più lo stesso: fin da bambini il pc ha mandato in soffitta da tempo le biglie con dentro le figure dei ciclisti e se non fosse per Berlusconi e la sua mania di vedere comunisti perfino nella tazza del water, davvero si direbbe che ormai si sia in pieno terzo millennio. Per noi eterni provinciali, abituati a considerare che il mondo conosciuto finisca al confine con Chiasso, parrebbe essersi aperta una nuova era fatta solo di pace e reality show.
E invece non tutto fila liscio, perché al di là delle apparenze esistono alcune costanti che attraversano le epoche storiche, che cambiano pelle ma non tramontano mai.

A rompere il silenzio della censura (ecco una prima costante: il potere che cerca di mettere la museruola all’informazione libera) nei giorni scorsi era (faticosamente) rintracciabile questa notizia: a Falluja (Iraq) un inviato della BBC, girando per gli ospedali, ha riscontrato tassi di malformazioni congenite tra i bambini e di tumori fra gli adulti 15 volte più alti del normale. Malformazioni al cuore, ma anche bambini con sei dita e con tre teste. Lo so, detta così sembra una puntata di X-files, ma il fatto è che Falluja è stata nel 2004 teatro della battaglia campale dell’esercito americano: una intera città di 350.000 abitanti isolata e tutta la popolazione presente al momento, donne e bambini compresi, considerata esercito combattente.
Falluja è tuttora il buco nero della storia recente dei crimini di guerra. La troupe di RAI News 24 aveva già documentato l’uso delle bombe al fosforo bianco e il Pentagono, costretto dall'evidenza, alla fine ammise. Ora la BBC documenta il crimine perfetto: l'uranio radioattivo contamina l'ambiente provocando mutazioni genetiche che uccidono e storpiano a distanza di anni e le cui prove sono, esattamente per questo motivo, molto difficili da rintracciare.
Grissom inchioda i colpevoli, ma solo nei telefilm di C.S.I.
L’America, nel frattempo, si appresta a lasciare l’Iraq, la guerra cattiva, per potersi concentrare d’ora in poi solo sull’Afghanistan, la guerra buona. Da quelle parti Gino Strada ed Emergency stanno cercando i finanziamenti per costruire 12 ospedali e la stratosferica cifra di 250 milioni di dollari, necessaria per lo scopo, è stato calcolato essere più o meno il costo di 8 (!) ore di guerra.

Ora, chiedo scusa se ci sono andato giù un po' pesante. Ma il fatto è che ci sono argomenti che non sono necessariamente lievi, e uno di questi riguarda proprio l’egemonia degli imperi. Che esiste e non riguarda solo fatti di costume innocui come il vino hollywoodiano, bensì anche faccende molto meno innocenti come la potenza militare, il controllo dell’informazione e di aree strategiche del pianeta. E gli orrori della guerra.
Insomma, ha a che fare con l’antica legge del più forte e con qualcosa per il quale non riesco a trovare altro termine più calzante se non quello ormai fuori moda di “imperialismo”.
In questo caso però, con un piccolo tocco di stile, questo sì moderno. Grosso modo funziona così: assicuratevi di essere i massimi produttori di armi di distruzioni di massa, quindi dichiarate guerra a un paese accusandolo (falsamente) di produrre armi di distruzione di massa e poi usategli contro armi di distruzione di massa. Infine eleggetevi un Presidente giovane e progressista e fategli dichiarare che vi ritirerete per meglio proseguire un'altra guerra e il gioco è fatto.
Forse non vincerete la guerra, ma vi verrà sicuramente assegnato il Nobel per la pace.
E per concludere in bellezza, brindate con vino della California. Prosit.

(1.3.2010 - già pubblicato in www.iovivoiovivro.it)



Troll di regime


Avviso ai naviganti: gli autori del gruppo comparso su Facebook "Aboliamo i sussidi ai malati di SLA, tanto sono già morti" fanno parte di una corrente sedicente anarchica. Definiscono “trolling” la semina di provocazioni in rete usando il paradosso e mostrando, come loro stessi scrivono, l’ipocrisia e la falsità dei buoni sentimenti. Per fare un esempio, smascherano il falso buonismo di chi, mentre a parole considera un cane intoccabile, spesso non si indigna per le violenze verso gli esseri umani.
Usano fare, sempre a detta loro, satira senza censure e senza limiti, ridendo della “stupidità altrui”. Dichiarano di “usare” le vittime (già i morti del terremoto ad Haiti con la campagna “adotta un bambino morto” e poi ancora i mongoloidi con "Giochiamo al tiro al bersaglio contro i bambini down") come mezzo per essere paradossalmente solidali con loro e non per deriderle. Gettano le loro provocazioni nella rete di internet come “esche” e si divertono a vedere quanti utonti ci cascano, dimostrando così gli stereotipi di cui gli utonti stessi sarebbero vittime.

Si può giudicare questo loro passatempo come un’espressione di sub-cultura giovanile (sub in senso sociologico) e tollerarli, si può considerarli semplicemente dei deficienti e ignorarli, oppure ci si può indignare, perché si pensa che ci sia pur sempre un limite alla decenza, ma in quest’ultimo caso bisogna sapere che questo è certamente ciò che li diverte di più.

Chi, poi, non tollera la libertà della rete e non perde occasione per metterla sotto controllo, non crede ai propri occhi, intanto che finge di indignarsi. Per il potere, se i troll non ci fossero, bisognerebbe inventarli.

(14.2.2010)


Il Paese-dove-la-ricerca-non-c’è


C’era una volta una scienziata mite e riservata, ma tenace, molto tenace. Credeva nella libera ricerca, nel lavoro febbrile svolto tra alambicchi e provette e aveva un sogno: sconfiggere le malattie più terribili, che affliggono da millenni l’umanità, in modo che i vecchi, gli uomini, le donne e soprattutto i bambini, vivessero un po’ più a lungo e soffrissero un po’ meno per malattie a volte davvero tremende.

Ma nel Paese-dove-la-ricerca-non-c’è, il Ministero della Salute spendeva pochi soldi per questo sogno e tanti come lei, appena venivano investiti del diploma per mettersi a fare ricerca, dovevano presto rinunciare e partire per l’America. Perché nel Paese-dove-la-ricerca-non-c’è bisognava per forza arrendersi al fatto che, mentre gli studi televisivi e gli stadi di calcio erano posti sfavillanti e pieni di bella gente, i laboratori erano quasi deserti ed erano piazzati in scantinati umidi, dove spesso non c’erano solo cavie, ma anche tanti altri sorci che scorrazzavano liberi e allegri facendo marameo ai loro simili in gabbia. Nel Paese-dove-la-ricerca-non-c’è i concorsi per fare lo scienziato senza morire di fame li vincevano quasi sempre i raccomandati, che di solito avevano stranamente lo stesso cognome del Direttore Tal dei Tali o dell’Assessore Tal Altro.

La scienziata tenace decise comunque di lavorare con le cellule staminali, e sapendo che le migliori erano le embrionali, decise di darci dentro con quelle. Ora, dovete sapere che di queste cellule si discuteva molto, perché c’era chi diceva che già dopo pochi giorni dal concepimento in una provetta, lì c’era già una persona tutta intera. La scienziata tenace, però, era tranquilla, perché sapeva che, quando due persone che si vogliono bene non possono avere figli, allora si fanno aiutare da altri scienziati come lei, e succede sempre che quegli ovetti fecondati non vengono messi tutti nella pancia della mamma, ma in parte vengono scartati e congelati per sempre. Lei sapeva che quelli e solo quelli potevano essere usati per cercare di guarire le malattie più brutte, e che nemmeno nel Paese-dove-la-ricerca-non-c’è questo era proibito.

Allora si mise al lavoro e scrisse un bel progetto di ricerca, e tutta speranzosa attese il primo Bando utile perché le venisse finanziato. Ma -sorpresa!- il Bando non solo, come al solito, di soldi ne dava pochi pochi, ma diceva anche, chiaro e tondo, che potevano essere ammesse tutte le ricerche, ma proprio tutte, meno che quelle come la sua.
Tutto subito la scienziata non poteva crederci, doveva esserci uno sbaglio, ma verificato che davvero le cose stavano così, e poiché era mite ma tenace, decise che ai politici ottusi non poteva darla vinta e allora fece ricorso. Perfino nel Paese-dove-la-ricerca-non-c’è c’era una Costituzione che diceva che ogni scienziato che voleva, doveva esser libero di fare libera ricerca, però il Tribunale Regionale a cui si rivolse rispose che sì, in fondo lei aveva ragione, ma che avrebbe dovuto far firmare il ricorso al suo Direttore, perciò: niente da fare.
Di nuovo la scienziata non poteva crederci, ma poiché era mite ma tenace, decise di portare la cosa al Consiglio di Stato, dove sicuramente le avrebbero dato ragione. Al Consiglio di stato studiarono a lungo e bene la questione, perché in quel Paese le cose che sembravano semplici erano sempre le più complicate, e infine trovarono la soluzione che ci voleva: la ricerca per loro sarebbe stata ammissibile, ma dato che la scienziata che non poteva concorrere non aveva presentato nessun progetto, il progetto-che-non-c’era, non essendoci, non poteva essere finanziato.

Non c'era verso e alla fine anche la scienziata dovette capire: ecco cosa succede a chi si ostina a voler fare ricerca nel Paese-dove-la-ricerca-non-c’è.
Adesso la scienziata mite e riservata, ma tenace, è costretta anche lei a scegliere: o scappare in America come gli altri, oppure arrabbiarsi, ma tanto tanto, e non dargliela vinta neanche questa volta.
Io, che l’ho conosciuta, sono pronto a scommettere che la storia non finisce qui.

(4.4.2010 - già pubblicato in www.iovivoiovivro.it)

Il tritacarne televisivo


Ma chi l’ha detto che il lavaggio del cervello non esiste ed è solo una leggenda della guerra fredda?
Sentite questa: ripetendo nella sostanza un esperimento di 50 anni fa, la televisione francese ha girato un reality, “La zone Xtrème”, nel quale i concorrenti erano esortati a proseguire indifferenti verso la vittoria finale, non lasciandosi impressionare dal fatto che la punizione per chi sbagliava le risposte fosse una tortura a base di scariche elettriche. Nella stanza accanto a quella delle punizioni i concorrenti ascoltavano le grida di dolore dei condannati e dovevano dimostrare i loro nervi saldi non reagendo e proseguendo come nulla fosse.
I conduttori riuscivano ad imporsi semplicemente insistendo e dichiarando di assumersi loro tutta la responsabilità di quel che accadeva. I concorrenti non lo sapevano, ma a fingere le urla erano attori. Ebbene, solo il 19% dei concorrenti si è rifiutata di continuare il reality, tutti gli altri sono andati avanti, pur dimostrando, in alcuni casi, di essere anche fortemente turbati.

L’esperimento di Milgram, nel 1961, aveva già dimostrato che qualunque persona assolutamente normale poteva, in particolari condizioni, accettare di svolgere compiti che la coscienza e la morale avrebbero in normali circostanze portato a rifiutare. Quando l’autorità, insomma, è univoca e indiscussa e quando la personale responsabilità venga assunta da un’autorità superiore, il cervello va in pappa e la maggior parte delle persone smette di pensare.
Si confermava così quanto già detto da Hannah Arendt in occasione del processo ad Eichmann: non c’è bisogno di essere sadici assassini per sterminare milioni di esseri umani, si può essere onesti padri di famiglia e contemporaneamente comportarsi da killer seriali, facendo coscienziosamente il proprio dovere in obbedienza ad un’ordine superiore . Eichmann non era un mostro, nessuno può dirsi immune alla “banalità del male” e la Shoah non è affatto detto che non si possa ripetere.

Nulla di nuovo, dunque, se non che il video e il disperato bisogno di conquistare in tv il proprio quarto d’ora di gloria, producono inedite varianti di stati di rincoglionimento di massa. Forse è arrivato il momento di dirci che la televisione, già grandioso mezzo di alfabetizzazione popolare, è ormai morta da tempo: propinandoci ogni giorno una realtà che non esiste, vende ormai un paese di cartapesta, ma così facendo lo modella a sua immagine e somiglianza. Umilia e mortifica l’informazione, costringendola a violentare sé stessa, a trasformarsi in spettacolo, condannata com’è ad inseguire la legge dell’audience.
Meno male che c’è internet, che se non ci fosse bisognerebbe inventarlo: è lì infatti che si è spostata la lotta per i diritti umani e civili e per la sopravvivenza del pensiero e non a caso il potere, che teme ciò che non può controllare, non perde occasione per metterlo sotto censura. Anche lì vige la legge dello spettacolo, ma dallo spettacolo la rete, per sua natura, trae energia che sfruttiamo per interagire e uscire dalla passività. E’ un tema intrigante, magari lo affronteremo in un prossimo articolo.
Intanto, in tv, può accadere che il figlio di un malato di SLA debba dire fantasiosamente di volersi vendere un rene per poter andare in video, essere poi trattato come carta da parati e rispedito nel dimenticatoio nel giro di 24 ore. Avanti il prossimo: la tv è ormai un baraccone tritacarne che ingoia tutto, anche la residua attività elettrica cerebrale.
Avanti, verso un radioso futuro da elettroencefalogramma piatto.

(14.3.2010 - già pubblicato in www.iovivoiovivro.it)