Quando avevo 10 anni veniva a trovarci, dall’America, il cugino David, un personaggio bizzarro, nipote del mio bisnonno emigrato agli inizi del secolo. Negli anni ’60 David era impegnato, col resto della famiglia, e in concorrenza con altri italoamericani come lui, nell’invenzione di quello che Alessandro Baricco
ha battezzato
il vino hollywoodiano.
Io, che a ottobre di ogni anno, nel cortile di casa, mi divertivo a seguire il lavoro artigianale di spremitura dell’uva, non riuscivo a capacitarmi di come dei produttori di vino californiano possedessero degli stabilimenti che già allora somigliavano più a raffinerie di petrolio che a cantine sociali, che viaggiassero in jet privato e avessero un tavolino prenotato in prima fila nel miglior locale di Las Vegas.
Faceva anche questo parte, insieme con i telefilm di Rin Tin Tin e i fumetti di Blek macigno e il comandante Miki, della costruzione del mio personale e immaginario mito americano presessantottino.
Il mito venne presto spazzato via dalla guerra del Vietnam e sostituito dall’incombente malefica icona dell’imperialismo americano, a cui con coerenza gramsciana associai anche l’aggressione ai valori della cultura enologica operato dai cugini americani.
Baricco, ancora lui, ne ha raccontato la curiosa epopea in poche pagine del suo saggio
I Barbari, cogliendo nella metafora della globalizzazione del vino tutti gli aspetti, non necessariamente negativi, delle trasformazioni della modernità .
Il
vino hollywoodiano è quello che “ha venduto l’anima”: colore brillante, di gusto immediato, semplice, al primo sorso c’è già tutto ma tutto lì si esaurisce, si combina male coi cibi elaborati e va benissimo cogli stuzzichini da bar, sempre uguale a se stesso a dispetto delle annate. Pura barbarie.
Ma, sostiene sempre Baricco, la cosa ha un che di rivoluzionario, è la rivolta delle masse escluse dall’aristocrazia italo-francese che deteneva, fino alla II guerra mondiale, il monopolio della produzione, del consumo stesso e della cultura del vino, una cultura appunto aristocratica, con un linguaggio incomprensibile, da iniziati.
Grazie alla fermentazione con l’aria condizionata, possibile a qualunque latitudine, ad una “commercializzazione spinta” e ad un prodotto “facile”, spiegato con un linguaggio semplice (e perciò moderno), il vino, se pure nella sua versione globalizzata, ha invaso il mondo. E dunque grazie all’impegno di imprenditori che nulla sapevano della millenaria arte enologica, ma che tornavano in Italia a copiare i vini delle Langhe per poi stravolgerli con genialità (come il mio strambo cugino David) le masse hanno così potuto invadere territori da cui fino ad allora erano escluse e oggi il vino si beve ovunque, dallo Yemen alla Cambogia. E nulla impedisce ai raffinati cultori della tradizionale cultura del bere di continuare i loro riti millenari.
Ma, c’è un ma che mi arrovella. L’ultimo elemento che è stato determinante, dice ancora l’inguaribile ottimista Baricco, nella diffusione del vino a livello planetario, è stato che ad imporlo è stata la forza di dominio culturale dell’impero, dell’unico impero rimasto dopo la caduta del muro: quello americano.
Se le olive ascolane fossero state inventate in Nebraska, sicuramente oggi le mangerebbero anche in Thailandia.
Domanda: ma allora, scomparse le ideologie, siamo ancora nostro malgrado a fare i conti con l’impero? E ci può essere impero senza imperialismo? Ma il tratto fondamentale della modernità, non era l’inquietante avvento della società liquida, senza più un centro e senza conducente?
Guardiamoci intorno: tutto è cambiato. L’Unione Sovietica non esiste più, l’India si avvia a diventare la terza potenza mondiale e perfino i comunisti cinesi marciano compatti dietro il poco originale slogan “arricchitevi”. E anche da noi il mondo non è più lo stesso: fin da bambini il pc ha mandato in soffitta da tempo le biglie con dentro le figure dei ciclisti e se non fosse per Berlusconi e la sua mania di vedere comunisti perfino nella tazza del water, davvero si direbbe che ormai si sia in pieno terzo millennio. Per noi eterni provinciali, abituati a considerare che il mondo conosciuto finisca al confine con Chiasso, parrebbe essersi aperta una nuova era fatta solo di pace e reality show.
E invece non tutto fila liscio, perché al di là delle apparenze esistono alcune costanti che attraversano le epoche storiche, che cambiano pelle ma non tramontano mai.
A rompere il silenzio della censura (ecco una prima costante: il potere che cerca di mettere la museruola all’informazione libera) nei giorni scorsi era (faticosamente) rintracciabile questa notizia: a Falluja (Iraq) un inviato della BBC, girando per gli ospedali, ha riscontrato tassi di malformazioni congenite tra i bambini e di tumori fra gli adulti 15 volte più alti del normale. Malformazioni al cuore, ma anche bambini con sei dita e con tre teste. Lo so, detta così sembra una puntata di X-files, ma il fatto è che Falluja è stata nel 2004 teatro della battaglia campale dell’esercito americano: una intera città di 350.000 abitanti isolata e tutta la popolazione presente al momento, donne e bambini compresi, considerata esercito combattente.
Falluja è tuttora il buco nero della storia recente dei crimini di guerra. La troupe di RAI News 24 aveva già documentato l’uso delle bombe al fosforo bianco e il Pentagono, costretto dall'evidenza, alla fine ammise. Ora la BBC documenta il crimine perfetto: l'uranio radioattivo contamina l'ambiente provocando mutazioni genetiche che uccidono e storpiano a distanza di anni e le cui prove sono, esattamente per questo motivo, molto difficili da rintracciare.
Grissom inchioda i colpevoli, ma solo nei telefilm di C.S.I.
L’America, nel frattempo, si appresta a lasciare l’Iraq, la guerra cattiva, per potersi concentrare d’ora in poi solo sull’Afghanistan, la guerra buona. Da quelle parti Gino Strada ed Emergency stanno cercando i finanziamenti per costruire 12 ospedali e la stratosferica cifra di 250 milioni di dollari, necessaria per lo scopo, è stato calcolato essere più o meno il costo di 8 (!) ore di guerra.
Ora, chiedo scusa se ci sono andato giù un po' pesante. Ma il fatto è che ci sono argomenti che non sono necessariamente lievi, e uno di questi riguarda proprio l’egemonia degli imperi. Che esiste e non riguarda solo fatti di costume innocui come il
vino hollywoodiano, bensì anche faccende molto meno innocenti come la potenza militare, il controllo dell’informazione e di aree strategiche del pianeta. E gli orrori della guerra.
Insomma, ha a che fare con l’antica legge del più forte e con qualcosa per il quale non riesco a trovare altro termine più calzante se non quello ormai fuori moda di “imperialismo”.
In questo caso però, con un piccolo tocco di stile, questo sì moderno. Grosso modo funziona così: assicuratevi di essere i massimi produttori di armi di distruzioni di massa, quindi dichiarate guerra a un paese accusandolo (falsamente) di produrre armi di distruzione di massa e poi usategli contro armi di distruzione di massa. Infine eleggetevi un Presidente giovane e progressista e fategli dichiarare che vi ritirerete per meglio proseguire un'altra guerra e il gioco è fatto.
Forse non vincerete la guerra, ma vi verrà sicuramente assegnato il Nobel per la pace.
E per concludere in bellezza, brindate con vino della California. Prosit.
(1.3.2010 - già pubblicato in www.iovivoiovivro.it)