Raccontare l'indicibile


(14 nov. 2012)

Come si può raccontare la sofferenza, la solitudine, l’angoscia? Siamo in fascia protetta, allontanate i bambini, please. Devo spiegare quel che non si può spiegare. Raccontare come si può arrivare a rischiare la vita con uno sciopero della fame.
Come raccontare l’indicibile? Come raccontare la prima crisi respiratoria, quel senso di morte che provi quando hai i polmoni pieni di schiuma e l’aria non passa più? Come spiegare quando ti svegli dopo la tracheostomia e ogni giorno che passa è un gioco a scacchi con la morte, in compagnia del tuo ventilatore che soffia come un mantice notte e giorno? Come spiegare l’angoscia di stare immobile in un letto alle tre del mattino, respirare a fatica, aver bisogno di essere aspirato e non poter chiamare nessuno perché il tuo puntatore oculare è andato in tilt ? Succede.
E com’è convivere col terrore che i tuoi occhi si fermino per sempre? Perché accade, di rado ma accade, e non puoi prevederlo.
Se ci arrivi, a provare tutto ciò e molto altro ancora, vuol dire che in te alberga un’insopprimibile pulsione di vita. Significa che hai accettato la tua condizione senza riserve, che sai guardare avanti senza mai voltarti indietro. La nostalgia uccide.
Io non so quali siano le motivazioni degli altri per digiunare, credo ognuno abbia le sue. Non c’è azione collettiva come uno sciopero della fame che rechi con sé il massimo possibile di scelta individuale. Io ho chiare le mie. Vivere dignitosamente e adeguatamente assistiti quandosi è vecchi o ammalati è un diritto. Se protestare non serve, allora non resta che gridare la propria lotta con forme estreme. Quando si è varcata la soglia della vita oltre quella che sarebbe il termine naturale della vita stessa, la morte non fa più paura.
C’è chi ci accusa di vile ricatto. L’autore di un ricatto agisce da una posizione dominante, vessa la sua vittima, io mi prendo tutta intera la responsabilità di quel che faccio, sono inerme e uso violenza solo contro me stesso.
Agisco anche per suscitare compassione, non mi illudo in chi ci governa, ma verso la gente comune, in modo che cresca la pressione popolare sul governo. Questa, che noi si usi un’arma compassionevole è un’altra accusa che ci viene rivolta. Una volta affermato che quel che viene sottratto è un diritto, non può essere una colpa mostrare la sofferenza a chi non ne è consapevole.
Si tende a confondere compassione con pietismo, emblematica è la tv del dolore, dove ci si commuove per procura della sofferenza che si fa spettacolo. Compassione significa cum patire, entrare in risonanza emotiva con la sofferenza dell’altro.
Detto che non è possibile dire l’indicibile, mi sembra che ce ne sia bisogno, di compassione, in questa società sempre più anestetizzata.

(pubblicato su lastampa.it)
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