Per chi non lo sla - vivere controcorrente


i miei interventi

Vorrei raccontarvi il significato del titolo della serata.
Perché il gioco di parole Per chi non lo SLA riguarda tutti. Riguarda per primo me stesso. Io mi sono ammalato di SLA un anno e mezzo fa. Sono medico, eppure non avevo idea di cosa fosse la Sla. La Sclerosi laterale amiotrofica era un vago ricordo dei libri di neurologia, al massimo rinfrescata dall’essere diventata, per le tv, la malattia dei calciatori. Ma non era qualcosa di reale. Così, ho dovuto imparare in fretta alcune cose:
La prima, che, detto in parole povere, è una malattia che ti toglie tutto, perché, più o meno rapidamente, tutto il corpo si paralizza, finchè progressivamente si arriva a non poter più parlare, mangiare e, alla fine, anche respirare. E’ possibile sopravvivere solo grazie a un tubicino collegato allo stomaco e a un tubo più grande collegato alla gola. L’unica cosa che ti lascia è la mente lucida.
La seconda cosa di cui ho dovuto rendermi conto rapidamente, conoscendo e avvicinando gli altri malati, sono le condizioni in cui vivono, nella stragrande maggioranza dei casi, le famiglie. Tutto il peso dell’assistenza, giorno e notte, grava interamente sulla famiglia. Si può attendere anche un anno per la visita d'invalidità e l’indennità di accompagnamento, se arriva, arriva con molto ritardo. Gli assegni di cura si danno e non si danno. Appena si arriva alla non autosufficienza, spesso in tempi molto brevi, chi può permetterselo assume una, e anche due badanti, si procura il fisioterapista che venga a casa, la spesa complessiva per le cure arriva, nei casi avanzati, a superare anche i 5.000,00 € al mese. Chi non può permetterselo, lascia il lavoro e diventa prigioniero nella propria casa. Conosco più di un familiare che da anni non esce più da casa, e non si ricorda più quand’è l’ultima volta che ha dormito più di tre ore per notte.
La situazione è molto disequilibrata, le cose non vanno ovunque così male, ma nella grande maggioranza dei casi, le cose stanno esattamente come ho descritto...
E allora ho pensato questo, che scegliere di vivere con la SLA diventa un po’ come avere imparato a nuotare e poi decidere di non volere smettere, anche se, improvvisamente, ci si trova a doverlo fare risalendo la corrente di un torrente. La corrente è la malattia, ma anche la solitudine e l’abbandono in cui ci si può ritrovare. E allora, ci vuole coraggio a nuotare controcorrente.
E poi, la terza cosa che ho imparato: si dice spesso dei malati di SLA, che siano persone particolari, che hanno una grande forza e che, non avendo tempo, non ce l’hanno nemmeno per piangersi addosso, forse è vero. O forse è semplicemente che, con il corpo che diventa una gabbia, tutto: la capacità di emozionarsi, desiderare, sognare, amare, comunicare anche se non si può più parlare, non solo non viene meno, ma diventa ancora più grande. Ecco, il messaggio che vogliamo lanciare questa sera è che se ognuno sa fare la propria parte le cose possono cambiare. Che si può continuare a vivere, controcorrente, e stare in mezzo agli altri, e divertirsi e fare festa.

Il momento è difficile. Siamo nel pieno di una crisi che sta facendo pagare il prezzo più alto ai più deboli. I malati di SLA sono stanchi. Il 21 giugno sono scesi in piazza a Roma perché stanchi di tre anni di promesse e rinvii, per chiedere l’approvazione di provvedimenti fondamentali per l’assistenza socio-sanitaria. A Cagliari, ieri, i malati di SLA, hanno sfidato i 40 gradi all’ombra, perché la delibera sulla continuità assistenziale, pronta da sei mesi, attende ancora di essere firmata. A Torino, il 21 giugno, in contemporanea con la manifestazione di Roma, anche i malati di SLA piemontesi hanno protestato.
La situazione in Regione è molto disomogenea, l’assistenza funziona bene in certi posti, meno bene in altri. Esistono esperienze preziose ed altre dove le cure domiciliari sono gravemente carenti.
La giunta regionale, ancora durante la scorsa legislatura, aveva varato alcuni provvedimenti innovativi. Una delibera sul percorso di continuità assistenziale, che garantirebbe la continuità delle cure dall’Ospedale al domicilio, evitando i ricoveri impropri e contenendo i costi. E poi altri provvedimenti, uno per tutti l’assegno di cura, che a tutt’oggi restano scritti sulla carta. I malati e poi i servizi che dovrebbero erogarli non li conoscono, i fondi non vengono spesi.
Per dovere di cronaca devo purtroppo dire che spiace che l’Assessore alla Salute della Regione non abbia accettato l’invito che le avevamo rivolto per essere qui con noi stasera. Ha detto anche che avrebbe fatto giungere un saluto, lo stiamo ancora aspettando. Diciamo che da settimane, per essere magnanimi, malati senza bandiera, APASLA e AISLA con le sue sedi di Asti, Cuneo e Torino, hanno chiesto e aspettano ancora di essere ricevuti.
Noi malati non scendiamo solo in piazza a protestare, ma abbiamo anche proposte da avanzare, ci sembrano proposte ragionevoli, e avremmo avuto piacere di discuterne questa sera in modo costruttivo. Se il buon giorno si vede dal mattino, devo dire che la giornata si prospetta piuttosto difficile.

...Intanto che Gianluca Fantelli si prepara, vi racconto un po’ di lui. Gianluca, come altri della sua generazione, da ragazzo suonava e aveva tentato di “sfondare”, ma, come spesso accade per le case editrici, che a volte scartano anche ottimi libri, le case discografiche non ne vollero sapere. Così GianLuca, suo malgrado, ha dovuto accantonare il sogno di cantare da professionista, facendo tutt’altro nella vita. Quando, tre anni fa, si è ammalato, ha affrontato, come tutti, un periodo molto difficile. Poi ne è uscito e un giorno, sulla pagina di Facebook che io e altri amici avevamo aperto, è spuntato un suo messaggio che molto semplicemente diceva “Ehi, ci sono anch’io”. L’ho contattato, ci siamo conosciuti, in una fredda mattina di febbraio ci siamo incontrati davanti alle Molinette e lui mi ha detto: “da quando mi sono ammalato, so che non ho troppo tempo ma finchè ho voce voglio cantare”.
Cantautori e musicisti come lui, testimonial della malattia, non ce ne sono. Lui si è messo in testa di diventare ora cantante professionista e la cosa straordinaria è che guardandomi negli occhi mi ha detto: “e io ci riesco”.
Io faccio tutti gli auguri a GianLuca, che pian piano si sta facendo conoscere, che per ancora molto tempo la sua voce, che qualche problemino già ce l’ha, ma che è ancora molto bella e calda, lo possa accompagnare fin dove lui sa che può e sicuramente arriverà.
GianLuca per quest’avventura ha ricontattato il suo amico d’infanzia Luca Bollini detto Rocco, pianista e compositore, e durante un incontro ad un casello autostradale gli ha raccontato, era il primo con cui lo faceva, che lui si era ammalato. Hanno pianto insieme, lui gli ha proposto di ritornare sul palco e Luca ha accettato subito.
Così hanno cominciato nuovamente a scrivere canzoni, hanno contattato alcuni artisti di nome e lentamente, in questi giorni, sta scalando la classifica per suonare sul palco con Ligabue, dunque se lo votate andando su Facebook, gli permetterete di andarci arrivando in cima alla classifica. Bene … ci siamo quasi …. A te Gianluca!

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Tremonti: i falsi invalidi sono i malati di SLA


E' finalmente partita la campagna contro i falsi invalidi, cominciando dai parassiti: i malati di SLA.
Da parte dell'INPS stanno infatti giungendo, a quelli di loro che da anni stanno incollati al letto e usano, ammesso che glielo diano, il comunicatore oculare, pur di ottenere truffaldinamente l'invalidità e l'accompagno, lettere che richiedono il reinvio della documentazione sanitaria completa, pena la riconvocazone per una nuova visita.
Era ora.

(Se dovessi fare un commento più serio, direi: la diagnosi di sla arriva di solito tardi e viene certificata dai Centri di riferimento regionali. L'invalidità viene accertata anche con un anno di ritardo, l'indennità di accompagnamento può anche arrivare quando non serve più, perchè l'ammalato è già deceduto.
La cartella clinica sarà la stessa sulla base della quale l'invalidità è stata concessa. Ma chi dirige l'INPS: Einsten?)

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I leoni nella riserva indiana

Cronaca politicamente scorretta di una manifestazione

Lunedì 21 giugno: manifestazione nazionale per “l’immediata approvazione dei LEA e del nomenclatore”, un freddo titolo burocratico che, per capirci, sta per “lotta per la vita per i malati di Sla”. Perché avere o non avere finalmente una normativa che preveda l’assistenza domiciliare, insieme alla possibilità di continuare a comunicare anche quando si è completamente paralizzati e si muovono solo più gli occhi, può fare la differenza. Tra i motivi per cui l’85% dei malati si lascia morire, rifiutando la tracheotomia e la respirazione artificiale c’è anche questo: persone che si sentono un peso insopportabile per i propri cari e arrivano a considerare la vita non più degna di essere vissuta.
Così, dopo che AISLA, l’associazione nazionale dei malati, ha rotto gli indugi e si è posta alla testa del movimento di protesta (che già nell’autunno-inverno scorso si era fatto duramente sentire anche con iniziative di sciopero della fame) a Roma, in Piazza Montecitorio, i malati di Sla hanno provato ancora una volta ad uscire dall’invisibilità: almeno 50, alcuni in condizioni estreme, e 200 accompagnatori, confluiti da tutte le regioni d’Italia. A dare loro una mano, altre associazioni, di malati e disabili.

In piazza, quel giorno, c’ero anch’io. E ho visto le lacrime di commozione di chi è stanco di non essere ascoltato e sa che il momento potrebbe essere decisivo. Ho visto i sorrisi di chi si riconosce negli altri, li può salutare solo strizzando gli occhi, o toccarli facendosi aiutare ad alzare una mano. Ho visto lo strazio dei miei compagni di viaggio ingabbiati nel corpo, ma con sguardi che trasmettevano lucidità e determinazione. Ho visto la rabbia e l’esasperazione, ho sentito le parole gridate, ma scelte con consapevolezza, di chi non ce la fa più e sente di non vivere in un paese civile. E mi sono detto che tutto questo non poteva non scuotere le coscienze.
Ma in questa Italia corrotta e dal pelo sullo stomaco ai massimi storici, ci vuole ben altro per smuovere la determinazione, altrettanto incrollabile, di chi considera un disabile non una persona, ma un “freno alla competitività”, e non si vergogna neppure di dirlo dallo scranno del Ministero del Tesoro.
Così, è accaduto, in ordinata sequenza: che si finisse confinati in una ben allestita riserva indiana di circa 300 metri quadri, lo spazio più lontano da Montecitorio, dove tutte le minoranze offese del belpaese fanno disciplinatamente i turni per protestare, tra l’indifferenza generale e la curiosità dei turisti.
Che pericolosi sovversivi in carrozzella e respiratore manifestassero circondati da agenti antisommossa che controllavano chiunque osasse fare un passo, anche solo per recuperare ombrelli o sfogliatelle napoletane da distribuire ai partecipanti.
Che la sede del Parlamento svettasse alle nostre spalle, con le finestre sbarrate e verosimilmente deserta.
Che all’impegno incessante dei presenti nel farsi notare facesse da stonata eco l’assenza dei politici, unica eccezione un Casini solidale che farà il giorno seguente una interrogazione al Ministro Fazio (degnata solo di un’evasiva risposta scaricabarile) e la compatta latitanza dei media nazionali, unica eccezione l’ex telekabul, sempre più imbavagliata e inoffensiva.
Che dal microfono dell’organizzazione venisse ripetuto l’annuncio che a minuti sarebbe sceso il sottosegretario del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. I manifestanti lo stanno ancora aspettando adesso. Chissà se esiste davvero.

Dopo 4 ore di presidio, la manifestazione si è sciolta tra gli applausi rivolti alla delegazione che, apprestandosi a salire per essere ricevuta dal braccio destro del Presidente del Consiglio, prometteva che, dopo tre anni di promesse, non avrebbe più accettato promesse. Poco dopo, il Sottosegretario Gianni Letta concludeva l’incontro, non senza aver prima proferito parole costernate e solidali, con una altisonante promessa: "Da oggi il vostro presidio sarò io".
Un brivido ha percorso i manifestanti sulla via del ritorno.
Sostituito, nel giro di poco, da una certezza, che sta diventando il passaparola di questi giorni: Roma è stata solo l’inizio, la nostra pazienza ha una data di scadenza.

Un ruggito a San Bartolo

Cronache da un raduno

A Firenze, un paio di mesi fa, si è tenuto un raduno di ammalati, gli SLAleoni, come amano definirsi. Si tratta, nonostante la SLA sia una malattia catastrofica, di un’allegra e pugnace combriccola, certo una minoranza, ma che val la pena di avvicinare, ben lontana, com'è, dal trito e tradizionale clichè stile "combattenti e reduci".
Ed ecco allora la breve cronaca:

Appena giunti a Firenze, raggiungiamo la Casa del popolo di San Bartolo, memoria vivente di ben altri fasti. Solo nelle capitali del nostrano "socialismo reale" manageriale che odora di ribollita, puoi trovare ancora questi santuari laici, a metà fra la elefantiaca sala del politburo e il teatrino parrocchiale. Una perla dell’architettura collettivista, che da sola varrebbe il viaggio.
All’ingresso scatta un fenomeno inedito: in un carosello di faccine da facebook e nickname da forum virtuale, ci si riconosce in un clima da rimpatriata, pur essendo la prima volta che ci si incontra nella vita. Esclamazioni, abbracci, pacche sulle spalle… Di lì in poi è una galleria di istantanee: la cena, i discorsi impegnati, poi quelli più intimi e familiari, immersi come siamo in questo salone delle feste un po’ decadente, sotto lo sguardo severo di un Che naif appeso alla parete.
L’incontro mio più difficile è con Tore, malato sardo in fase avanzata e leader di mille battaglie, che, lasciato sull’isola il comunicatore personale, sta litigando con quello di riserva della ditta lì convenuta, nel disperato tentativo di affidare le sue parole al sintetizzatore vocale, come di solito sa fare. E’ dura specchiarmi nel mio futuro prossimo e contemporaneamente provare l’imbarazzo di voler dialogare, ma udire solo la mia voce che pronuncia frasi che suonano stonate, perchè lui non può comunicare altro che con con gli occhi, vivacissimi, e con un disarmante sorriso. C’è tutto in questi gesti, ma devi interpretarli e non sei preparato a farlo; e ti rendi conto di quanto sia lunga la strada.
La mattina successiva, quando torniamo al Cremlino, già in ritardo sul programma, ci rendiamo conto che il ruggito degli Slaleoni a volte si trasforma in sbadiglio, perché la sala è vuota. Chi provato dalla sera prima, chi ancora in viaggio, quando la sala finalmente è al top dell’animazione è già ora di pranzo. Tanti i discorsi e i progetti abbozzati, contagiosa l'allegria che serpeggia, finchè anch’io tento qualche incontro ravvicinato, piuttosto sfortunato per la verità, con un paio di comunicatori oculari: il primo ha in antipatia le mie lenti progressive, il secondo non è connesso, per cui le curiosità che avevo me le tengo e ripiego sul buffet.
Nel primo pomeriggio giunge e riparte Luka, giovane ammalato gravissimo, costantemente allettato, ma vulcanico nelle sue iniziative, che si è sottoposto ad un viaggio estenuante in ambulanza, pur di non mancare, non si sa se al raduno in sé, o quanto piuttosto per concedersi ai gridolini di giubilo delle donne presenti, che gli riservano un’accoglienza degna del tappeto rosso del festival di Cannes. Un vero divo, amatissimo.
Intanto, poco alla volta, ci si scambia occhiate smarrite, orfani di un confronto “politico” che, in nome di una tregua forse non dichiarata o forse sì, non avrà mai luogo. Il fatto è che qui c’è un movimento che ancora deve diventare adulto, una famiglia di persone che ha imparato a volersi bene ma non ancora, evidentemente, a discutere con franchezza e serenità, e che preferisce evitare gli argomenti più difficili per non cadere nella rissa. Penso che questi problemi andranno affrontati, che ci sono divisioni che dovranno invece diventare sensibilità diverse che sappiano convivere in nome di un patto comune.
Ci intratteniamo simpaticamente via skype con Gian, scrittore genovese, poi si improvvisa qualche intervento a metà tra il saluto e il bilancio dell’incontro, e così accade che prendano proditoriamente il timone i rappresentanti delle ditte di comunicatori, che, tra la educata noia generale, provano ad imbonire una platea che sta ancora digerendo il buffet.
A risvegliare gli Slaleoni ci pensa Leo, ceramista di Forlì, il quale con voce rotta legge la lettera lasciataci da Luka e aggiunge pathos ad una piena emotiva a cui, giunti alla dodicesima ora di Raduno, basterebbe molto meno per tracimare.

Mentre consegna i piattini in ceramica con il fumetto disegnato da Staino, che ha prodotto nel suo Laboratorio, l’emozione è al massimo. E’ allora che prendo la parola.
Sento che devo ringraziare i partecipanti, perché mi hanno accolto facendomi sentire a casa, in un incontro che, adesso, pare scontato, ma che scontato non era.
E poi voglio richiamare i punti per me irrinunciabili del nostro stare insieme: la ricerca del nostro personale senso alle vicende di malattia, la responsabilità di prenderci cura di noi stessi e degli altri, la consapevolezza che le lotte per i diritti e la dignità sono comuni a tutti i malati in quanto persone e che dobbiamo intessere un dialogo quantomeno anche con chi porta malattie rare come la nostra, ma non la nostra capacità di aggregazione.
La commozione mi spezza la voce, perché sono forse le parole più di cuore e meno di testa che abbia mai pronunciato. Strana, la vita.

Il lavoro rende liberi


Mariarca Terracciano, l’infermiera di Napoli, è morta dopo essersi dissanguata, e poco importa stabilire se clinicamente questo esito sia stato, o meno, conseguenza diretta di quel gesto. Chiedeva di vedere rispettato il diritto a ricevere lo stipendio e per essere ascoltata si è pubblicamente svenata un po’ ogni giorno. Ha vinto la sua lotta, ma a costo della vita.
Lo stato agonizzante di una sanità, che si è fatta terreno di conquista degli interessi privati più feroci (6 miliardi di € di deficit, finiti interamente nelle tasche degli speculatori), e che da anni uccide i pazienti che ad essa si affidano, da oggi ha iniziato a giustiziare anche gli infermieri, lasciati senza stipendio, soli e isolati, alle prese con famiglia da mantenere e mutuo da pagare.
Lavoro, casa, istruzione e salute smettono di essere un diritto della persona, da conquistare e difendere collettivamente, e vengono anch’essi privatizzati: la lotta per i diritti è stata ormai derubricata a fatto personale, che solo gesti estremi, segnati dalla disperazione, possono sperare di riscattare.
Ha scritto Adriano Sofri, a proposito del moderno schiavismo dei call center, dove giovani laureati lavorano 13 ore al giorno per 6 € l’ora, in nero, e se alzano la testa vengono sottoposti a pene corporali, che le moderne schiere di precari vendono la propria forza lavoro senza nemmeno pensare di poter avere dei diritti. Né più né meno come gli immigrati, reclutati dai caporali per 20 € al giorno.

A partire dalle decine di impiegati suicidi della Telecom France, passando per le tragedie familiari dei lavoratori licenziati e dei piccoli imprenditori che falliscono e che trascinano con sé moglie e figli prima di rivolgere l’arma contro se stessi, per finire, perdonate l’autocitazione, con i malati di SLA che rischiano il corpo già disfatto con lo sciopero della fame, credo che nel mondo occidentale avanzato si sia entrati in una fase nuova di quello che una volta si sarebbe chiamato “il manifestarsi delle contraddizioni del sistema”. Per non parlare del sistema stesso, che da tre anni è entrato in crisi economica globale e sta spalmandone le conseguenze buttando sul lastrico mezza Europa. La Grecia non è che l’inizio.
Qualcuno ha detto che uno degli elementi determinanti per il trionfo del neoliberismo, è stato l’assorbimento del sindacato nella concertazione perpetua, dove l’oggetto del contendere non è, di volta in volta, chissà quale conquista, ma solo la quota di diritti da cedere: io ti propongo il 50% e tu sindacato ti batti per limitarla al 30%, e se ce la fai hai chiuso una trattativa soddisfacente, insomma hai vinto.
Un altro elemento è l’omologazione ai network della “visibilità”, l’inciviltà dell’immagine, quella per cui devi pubblicizzare la tua guerra privata su youtube e minacciare di venderti un rene alla “Prova del cuoco”. Se non riesci ad andare su internet e in televisione, sei fregato, non esisti.
Nelle assemblee di fabbrica, quando si cerca supporto alla lotta, anziché rivolgersi al sindacato, ormai squalificato e delegittimato, si vota per decidere se chiamare il Gabibbo o, in alternativa, Le Iene.

Così, a ben poco servono gli appelli, a volte sinceri a volte ipocriti, a non estremizzare le forme di lotta e a non rischiare la vita.
E se qualcuno avesse la tentazione di leggere quel che accade con categorie mediche, invocando depressione ed isteria, si dovrebbe rispondere che Schmidt e Benasayag, psichiatri, descrivendo il nostro tempo come “l’epoca delle passioni tristi”, hanno prescritto, come cura, la “terapia del legame”. Che, tradotto, vorrebbe dire riprendere un pensiero plurale, il “noi” e il senso di comunità, restituendo significato a parole tanto più vuote quanto ormai abusate: solidarietà e interessi comuni.
L’alternativa, in caso contrario, è continuare così, ognuno per sé, a fare i conti, giorno dopo giorno, con le proprie, privatissime disperazioni.

La libertà, infine


C’è chi segue ossessivamente i premi letterari e chi, come tanti ammalati fanno, non perde neppure un’uscita in libreria di ogni suo sconosciuto compagno di sventura, suo perché preferibilmente della sua propria stessa malattia. E poi ci sono i tanti che, al di fuori di questi recinti un po’psicopatologici, hanno avuto l’occasione di conoscere l’opera di Cesarina Vighy, detta “Titti”, semplicemente perché conquistati dalla sua stessa forza creativa. Opera che risulta composta, ahimè, da due soli volumi: L’ultima estate, il romanzo autobiografico con cui la ultrasettantenne bibliotecaria, veneziana e romana di adozione, ha esordito l’anno scorso vincendo, curiosamente, il Premio Campiello per l’Opera Prima, e Scendo, buon proseguimento, l’opera seconda, uscita in libreria appena la scorsa settimana.
Perchè proprio il giorno dopo, 1° maggio, Titti “è scesa” e ci ha lasciato per sempre.

Quello che mi affascina e sorprende della sua vicenda è che questa abbia con la malattia un unico, fondamentale punto di contatto: che sia dal corpo fattosi gabbia che l’autrice abbia tratto la propria assoluta libertà intellettuale.
Avrebbe da molto tempo voluto scrivere, ma non si sentiva autorizzata. Poi, colpita dalla SLA, per sua scelta si è ritirata in casa, concedendosi solo agli affetti più cari e a chi la assisteva. Ha considerato il decadimento fisico devastante della malattia un’offesa, una mutilazione, e ha rifiutato di accettarla, perché, come ha scritto nell’Ultima estate, si accetta quel che viene proposto, non ciò che viene imposto con la forza. In realtà ha saputo invece elaborare il lutto del corpo trasfigurandone e sublimandone il senso di impotenza nella libertà di quel che resta, dopo il corpo che cede: l’interiorità, il pensiero.
Si è definita “spudoratamente libera: perché dovrei temere per i miei rapporti affettivi? Censurare i pensieri sarebbe come aumentare lo scacco, aggiungere blocco al blocco. La libertà di parola e il coraggio delle proprie convinzioni sono una conquista.”

Così, ha scritto intensamente, distillando nel suo primo romanzo tutto il suo personalissimo stile, scrivendo non la storia della malattia, ma la storia di una vita, lontanissima dalla malattia, che fa appena capolino solo nell’ultima, irresistibile parte del libro. “Ma io, la larva cocciuta, ho provato intanto l' estasi della scrittura. Scrivo e scrivo, con una facilità e una felicità mai provate prima: quasi ho dimenticato la sfida a resistere per riversare nel mio libro quello che mi è capitato nella vita di bello e di brutto, entro ed esco dalla malattia come un fantasma attraversa i muri, beffando chi si ferma davanti a una porta chiusa. Ho qualcosa di meglio da fare, io: recuperare la mia vita che sembrava ormai spezzata in due tronconi, prima della malattia e dopo la malattia. Solo ora ho scoperto che ci si può stare anche "dentro", profittando di quel dono avvelenato che ci hanno fatto: mantenere la mente lucida, forse più lucida di prima, sino alla fine. Via il pigiama, lavarsi o farsi lavare, vestirsi o farsi vestire: è un viaggio che ci aspetta, lungo o corto che sia. I miracoli li facciamo noi.”

La spiritualità che traspare dalle sue “laicissime pagine” le è riconosciuta addirittura dal teologo Vito Mancuso, che si è lasciato progressivamente conquistare dal suo secondo volume, man mano che questo prendeva forma, fino ad accettare di scriverne l’introduzione. Un’opera letteraria che percorre, nella sua costruzione, un intero itinerario, partendo dalla raccolta di lettere che nell’era di internet Cesarina ha scritto per 3 lunghi anni, come suo personale ponte col mondo, per approdare infine al lavoro compiuto, e inanellando, lungo il sentiero, personaggi e storie con mirabile equilibrio fra tragedia e commedia.
Nell’ultima intervista ha detto: “In famiglia abbiamo sempre scherzato su tutto. Con mio marito, in particolare, è stata la chiave per esorcizzare la paura: siamo entrambi indifesi di fronte alla prepotenza del male, all’ingiustizia, e abbiamo fatto dell’ironia e del cinismo (un altro segno di debolezza, in fondo) la nostra corazza di cartone contro i mali del mondo”.




intervista per "Extraterreni" - Raisatextra - 2004

Cinema / L’Uomo Che Verrà

Il "film che non c'è" vince il David di Donatello

Vince premi, ma nessuno lo può vedere. Così scrivevo a febbraio:
Questo è un invito ad una caccia al tesoro.
C’è un grande film che sta girando nelle sale italiane, ma bisogna essere più tenaci di un giocatore di gratta e vinci per indovinare data, città e cinema giusto.
Nell’Italia usa e getta di oggi, priva di memoria civile prima che storica, un regista indipendente come Giorgio Diritti ha svolto un lavoro di ricerca degno di un Ermanno Olmi (ma, a differenza di Olmi, assolutamente non palloso) e poi ha girato un film con la ormai consueta maestria nel dirigere attori e nel trasformare in attori gente comune. E, in ultimo, è stato costretto a consegnarsi alle regole delle lotterie per sperare che pochi, baciati dalla fortuna, possano godere della sua opera. E, si sa per esperienza, chi si affida alle lotterie ha perso in partenza.
Diritti infatti potrebbe essere un regista di successo e non lo è, così va il mondo. Ha lavorato molto con Pupi Avati, è bolognese come lui e ha firmato cinque anni fa, producendolo rigorosamente in cooperativa e rischiando di suo, quell’altro capolavoro che è “Il vento fa il suo giro”, storia di mancata integrazione dello straniero nella profonda Val Maira occitana. Ha mietuto successi in tutto il mondo e da noi è rimasto a lungo in cartellone solo grazie al passaparola che ha riempito le sale. Un’opera prima folgorante.
E ora, come un eterno debuttante, senza promozione e distribuito nel numero di UNA copia per capoluogo di regione, si ripete con “L’uomo che verrà”, che al momento è un missing, un desaparecido, una meteora cui non resta di nuovo che affidarsi al passa parola per essere avvistata.

Settembre 1944. Monte Sole, 30 km. a sud di Bologna. La vita contadina in una campagna boscosa e aspra, mezzadri poveri nell'Italia occupata dai nazisti, ribelli male organizzati e cittadini in fuga dai bombardamenti. E’ un mondo osservato con muta partecipazione da una bambina di 8 anni. Un dialetto perfetto come una lingua (con sottotitoli che dopo un po’ te li scordi) per l'eccidio che passerà alla storia come la strage di Marzabotto. Ma la strage non è il vero cuore del film, l’essenza sono la banalità del male e l'innocenza di un'Italia che non c'è più, l’invenzione di un modo di raccontare lineare e fresco, nuovo dopo l’avvenuta certificazione di morte delle ideologie.

C’è dentro tutto: la famiglia, il lavoro, l’identità e la dignità di un popolo e di una classe sociale, senza ombra di retorica alcuna. E le speranze di rinascita, indomabili e ogni volta tradite. Un film per molte ragioni attualissimo e bello, che emoziona con leggerezza, a dispetto delle ambizioni che avrebbero potuto renderlo indigesto.
Per questo vi consiglio, ribellatevi per una volta ai cinepanettoni e giocate alla caccia al tesoro. Cercate questo film e, se lo trovate, coglietelo al volo, non ve ne pentirete.



La mazurka clandestina


Una cara persona mi ha scritto questa storia, vera, raccontatale a sua volta da una sua nuova amica, una ragazza che ama moltissimo il ballo, conosciuta per caso poco tempo fa.

In Francia i balli di coppia, le danze popolari, il ballo al palchetto si imparano da piccoli e si danzano spesso, anche da giovani, con passione e senza vergogna.
Qui da noi è diverso e molti balli popolari, valzer, polke e mazurke sono ormai appannaggio di feste di paese, frequentate prevalentemente da anziani e così i giovani che vogliono ballare spesso vanno in Francia, oltre il confine, ad incontrare altri ballerini della loro età, a mischiare passi e sudore, musica e allegria.
Le danze che ballano sono antiche, ma la voglia di trasformarle fa sì che a volte i passi, quasi senza intenzione, incomincino un po’ a cambiare, i corpi, quasi impercettibilmente, a modificare la loro postura, il ritmo ad accelerare o a rallentare, gli sguardi nelle coppie a sembrare diversi e un'eccitazione nuova pervade la pista.
In particolare, c'è un ballo che sembra non voler più stare negli schemi dati, nelle distanze, nei movimenti: quel ballo è la mazurka.
Di danza in danza, di sera in sera, di gruppo in gruppo e di festa in festa la mazurka cambia, i passi accelerano, i corpi si avvicinano e si toccano, spalla contro spalla, guancia con guancia, fianchi, braccia, gambe. Intensi ma riservati, passionali ma precisi e nel pieno rispetto dello spazio e dell'integrità dell'altro, i ballerini imparano a guidarsi col contatto, col tocco, a occhi chiusi o aperti, seguendo la musica istintivamente, nei vecchi schemi, ma nel nuovo corpo, nel nuovo tempo.
E, sentendosi pionieri, rivoluzionari ma legati ai maestri, la battezzano la mazurka clandestina e decidono che la balleranno solo di nascosto, e di notte, per godersi la festa e per non disturbare e forse per non offendere.
Così la voce si sparge sotterranea. Un tam tam clandestino racconta e chiama a raccolta i ballerini della mazurka clandestina e annuncia il luogo, sempre una piazza, e l'ora del ritrovo, e il nome dei suonatori.
Così, al calar della notte, uomini e donne occupano le piazze, i suonatori si dispongono e le danze si aprono. E si balla, si balla per tutta la notte e si beve e si canta fino all'alba, corpi abbracciati, in silenzio, giri su giri, finché viene l'alba.
Allora i ballerini ed i suonatori lasciano la piazza e se ne vanno, alla spicciolata, ridendo o in silenzio, felici o stremati.
Dicono che ogni mazurka clandestina sia diversa, più bella, o più brutta, ma unica ogni volta.
Portata dal vento e dai nostri giovani che vanno in Francia, la mazurka clandestina è arrivata anche qui, nella nostra città. Si occupano le piazze, di notte, e si danza.
Tu lo sapevi, lo immaginavi, che, a volte, mentre noi dormiamo, in una piazza qui accanto uomini e donne danzano vicini, alla luce dei lampioni? Forse li vediamo nei sogni, ma non sappiamo che sono loro, che avremmo potuto unirci a loro o solo restare a guardarli mentre la notte scivola verso l'alba e la città li accoglie, ma nascosti, nella piazza, all'aperto. Che meraviglia, è la voce della luna, la luce dell'universo, è la danza dei respiri di noi tutti che dormiamo.
Poi è solo la piazza rimasta vuota, e la città che si sveglia.
Ho chiesto di sapere quale sarà la prossima mazurka clandestina. Ora che lo so, non vorrei perderla. La mia nuova amica ha promesso che me lo dirà.

(già pubblicato in www.iovivoiovivro.it)

Scontro di civiltà

Adro, paese simbolo

Ci sono piccoli grandi avvenimenti che accadono e che, pur nella loro minutezza, si caricano di un grande valore simbolico. Di solito i protagonisti di queste vicende si trovano ad avere a che fare con qualcosa che travalica le loro intenzioni, qualcosa di più grande di loro, con cui non pensavano di dover fare i conti e di cui non si rendono neppure ben conto.
Nella vicenda di Adro, invece, l’impressione è che la posta in gioco sia drammaticamente presente a tutti e che i bambini, i cui genitori non pagano la mensa scolastica, siano gli unici spettatori stupiti e impotenti di qualcosa che passa abbondantemente alcuni metri al di sopra delle loro teste.
I genitori in regola con le bollette, compatti dietro il loro sindaco leghista, si appellano al rispetto delle regole per affermare il ritorno a un senso di comunità forte, identitario, basato sul “noi” contro “gli altri”. Un senso di comunità dove nessun dubbio viene ad incrinare la certezza che, se qualcuno non paga, questa è la prova evidente che chi prega e mangia diverso da noi è qualcuno che si rifiuta di fare comunità, di diventare come noi, dunque si autoesclude e va punito.
Un senso di comunità, dunque, chiuso, che nasce sull’esclusione e sull’indisponibilità a capire perché succede quel che succede, e che delibera di educare l’altro passando attraverso la punizione dei più piccoli, lasciati "giustamente" senza pranzo.
Meglio far loro capire fin da bambini come funzionano le cose, qui da noi.

Di questo i genitori di Adro sono ben consapevoli, avendo votato in massa un sindaco nel cui programma sta scritto che prima vengono gli italiani, poi gli altri.
Quando le navi affondano, sulla scialuppa o si fanno salire prima le donne e i bambini, oppure, appunto, prima noi e poi gli altri.
Negli ospedali, come dice Gino Strada, o si curano tutti, a partire dai più gravi, o si curano prima i nostri e poi gli altri, cioè i nemici. Anzi, i nemici non si curano affatto, perché, una volta guariti, ricominceranno a spararci addosso come prima.
Perché noi abbiamo umanità, loro no, noi siamo costretti a fare la guerra, loro sono terroristi, insomma, noi siamo i buoni e loro i cattivi.
Il comico diceva: non sono io che sono razzista, sono loro che sono meridionali.

Così, unica voce isolata, si è levata quella del benefattore che, saldando il debito, si è dimostrato altrettanto consapevole della necessità di difendere un’altra idea di comunità, aperta, dove il noi include anziché escludere, perché, come dice in una lettera aperta ai suoi concittadini, non possiamo tradire le nostre radici autentiche, quelle di un popolo che ha conosciuto per un secolo le umiliazioni dell’emigrazione e che adesso le ha volute dimenticare troppo in fretta.

Scrive: “Sono figlio di un mezzadro che non aveva soldi ma un infinito patrimonio di dignità. Mi vergogno che proprio il mio paese sia paladino di questo spostare l’asticella dell’intolleranza di un passo all’anno, prima con la taglia, poi con il rifiuto del sostegno regionale, poi con la mensa dei bambini.
Quando facevo le elementari alcuni miei compagni avevano il sostegno del patronato. Noi eravamo poveri, ma non ci siamo mai indignati.
Per me quelli che non pagano sono tutti uguali, anche quando chiudono le aziende senza pagare i fornitori o i dipendenti o le banche. Anche quando girano con i macchinoni e non pagano le tasse, perché anche in quel caso qualcuno paga per loro. Ma che almeno non pretendano di farci la morale e di insegnare la legalità, perché tutti questi begli insegnamenti li stanno dando anche ai loro figli.
Ci sono cose che non si possono comprare.”


(19.4.2010 - già pubblicato in www.iovivoiovivro.it)
photo by Alberto Damilano

Qui siamo

Nulla è cambiato e nulla è più come prima.
Perché questa rabbia?
Perché queste accuse?
Che io finga di non sapere,
che io guardi e non veda.
Che nel mezzo della catastrofe,
quando si imporrebbe una pausa,
lo spettacolo avanzi, la recita non si interrompa.

No, non è paura, ti sbagli, è terrore,
è sollievo che questo orrore non mi riguardi,
che ancora una volta io sia qui, indenne,
Ma non posso negare, io so.
I tuoi piedi pesanti, ogni giorno di più,
le tue gambe contratte,
le cadute continue.
E il respiro affannoso,
la penna incerta,
le parole scandite,
il sorso d’acqua che scende a fatica, ogni giorno di più.

Sono qui, non fuggo specchiandomi in te,
non volgo lo sguardo altrove,
non invoco esorcismi.
Io stampello il tuo incedere monco,
richiudo l’asola e ti allaccio le stringhe
Ti insapono la schiena
E massaggio i tuoi piedi.
Ma pure proseguo i gesti abituali,
le stesse parole, il sorriso un po’ ambiguo che sai.
Non uso frasi di circostanza, non abbasso la voce,
non sussurro lamenti o scongiuri.
E non sgrano il rosario, non prego né maledico.
Non resto in attesa, non corro in cerca di guarigioni improbabili.
Riposo la sera attendendo il mattino,
riparo d’inverno guardando al disgelo,
accompagno la tua malattia come fosse
la prima canizie
tanto temuta.
Come l’incedere di una nuova stagione.

Ti guardo e ti vedo,
mi specchio e ho tenerezza di me,
sento di avere indulgenza per le mie debolezze.
Per noi, per la malattia.
Per i nostri confini
dai quali, eppure,
espatriamo ogni giorno.
Non ci porteremo dietro nulla,
nemmeno il corpo, che credevamo immortale.
Ma ora qui siamo.

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Il vino, i barbari e l'impero


Quando avevo 10 anni veniva a trovarci, dall’America, il cugino David, un personaggio bizzarro, nipote del mio bisnonno emigrato agli inizi del secolo. Negli anni ’60 David era impegnato, col resto della famiglia, e in concorrenza con altri italoamericani come lui, nell’invenzione di quello che Alessandro Baricco ha battezzato il vino hollywoodiano.
Io, che a ottobre di ogni anno, nel cortile di casa, mi divertivo a seguire il lavoro artigianale di spremitura dell’uva, non riuscivo a capacitarmi di come dei produttori di vino californiano possedessero degli stabilimenti che già allora somigliavano più a raffinerie di petrolio che a cantine sociali, che viaggiassero in jet privato e avessero un tavolino prenotato in prima fila nel miglior locale di Las Vegas.
Faceva anche questo parte, insieme con i telefilm di Rin Tin Tin e i fumetti di Blek macigno e il comandante Miki, della costruzione del mio personale e immaginario mito americano presessantottino.
Il mito venne presto spazzato via dalla guerra del Vietnam e sostituito dall’incombente malefica icona dell’imperialismo americano, a cui con coerenza gramsciana associai anche l’aggressione ai valori della cultura enologica operato dai cugini americani.
Baricco, ancora lui, ne ha raccontato la curiosa epopea in poche pagine del suo saggio I Barbari, cogliendo nella metafora della globalizzazione del vino tutti gli aspetti, non necessariamente negativi, delle trasformazioni della modernità .
Il vino hollywoodiano è quello che “ha venduto l’anima”: colore brillante, di gusto immediato, semplice, al primo sorso c’è già tutto ma tutto lì si esaurisce, si combina male coi cibi elaborati e va benissimo cogli stuzzichini da bar, sempre uguale a se stesso a dispetto delle annate. Pura barbarie.
Ma, sostiene sempre Baricco, la cosa ha un che di rivoluzionario, è la rivolta delle masse escluse dall’aristocrazia italo-francese che deteneva, fino alla II guerra mondiale, il monopolio della produzione, del consumo stesso e della cultura del vino, una cultura appunto aristocratica, con un linguaggio incomprensibile, da iniziati.
Grazie alla fermentazione con l’aria condizionata, possibile a qualunque latitudine, ad una “commercializzazione spinta” e ad un prodotto “facile”, spiegato con un linguaggio semplice (e perciò moderno), il vino, se pure nella sua versione globalizzata, ha invaso il mondo. E dunque grazie all’impegno di imprenditori che nulla sapevano della millenaria arte enologica, ma che tornavano in Italia a copiare i vini delle Langhe per poi stravolgerli con genialità (come il mio strambo cugino David) le masse hanno così potuto invadere territori da cui fino ad allora erano escluse e oggi il vino si beve ovunque, dallo Yemen alla Cambogia. E nulla impedisce ai raffinati cultori della tradizionale cultura del bere di continuare i loro riti millenari.

Ma, c’è un ma che mi arrovella. L’ultimo elemento che è stato determinante, dice ancora l’inguaribile ottimista Baricco, nella diffusione del vino a livello planetario, è stato che ad imporlo è stata la forza di dominio culturale dell’impero, dell’unico impero rimasto dopo la caduta del muro: quello americano.
Se le olive ascolane fossero state inventate in Nebraska, sicuramente oggi le mangerebbero anche in Thailandia.
Domanda: ma allora, scomparse le ideologie, siamo ancora nostro malgrado a fare i conti con l’impero? E ci può essere impero senza imperialismo? Ma il tratto fondamentale della modernità, non era l’inquietante avvento della società liquida, senza più un centro e senza conducente?

Guardiamoci intorno: tutto è cambiato. L’Unione Sovietica non esiste più, l’India si avvia a diventare la terza potenza mondiale e perfino i comunisti cinesi marciano compatti dietro il poco originale slogan “arricchitevi”. E anche da noi il mondo non è più lo stesso: fin da bambini il pc ha mandato in soffitta da tempo le biglie con dentro le figure dei ciclisti e se non fosse per Berlusconi e la sua mania di vedere comunisti perfino nella tazza del water, davvero si direbbe che ormai si sia in pieno terzo millennio. Per noi eterni provinciali, abituati a considerare che il mondo conosciuto finisca al confine con Chiasso, parrebbe essersi aperta una nuova era fatta solo di pace e reality show.
E invece non tutto fila liscio, perché al di là delle apparenze esistono alcune costanti che attraversano le epoche storiche, che cambiano pelle ma non tramontano mai.

A rompere il silenzio della censura (ecco una prima costante: il potere che cerca di mettere la museruola all’informazione libera) nei giorni scorsi era (faticosamente) rintracciabile questa notizia: a Falluja (Iraq) un inviato della BBC, girando per gli ospedali, ha riscontrato tassi di malformazioni congenite tra i bambini e di tumori fra gli adulti 15 volte più alti del normale. Malformazioni al cuore, ma anche bambini con sei dita e con tre teste. Lo so, detta così sembra una puntata di X-files, ma il fatto è che Falluja è stata nel 2004 teatro della battaglia campale dell’esercito americano: una intera città di 350.000 abitanti isolata e tutta la popolazione presente al momento, donne e bambini compresi, considerata esercito combattente.
Falluja è tuttora il buco nero della storia recente dei crimini di guerra. La troupe di RAI News 24 aveva già documentato l’uso delle bombe al fosforo bianco e il Pentagono, costretto dall'evidenza, alla fine ammise. Ora la BBC documenta il crimine perfetto: l'uranio radioattivo contamina l'ambiente provocando mutazioni genetiche che uccidono e storpiano a distanza di anni e le cui prove sono, esattamente per questo motivo, molto difficili da rintracciare.
Grissom inchioda i colpevoli, ma solo nei telefilm di C.S.I.
L’America, nel frattempo, si appresta a lasciare l’Iraq, la guerra cattiva, per potersi concentrare d’ora in poi solo sull’Afghanistan, la guerra buona. Da quelle parti Gino Strada ed Emergency stanno cercando i finanziamenti per costruire 12 ospedali e la stratosferica cifra di 250 milioni di dollari, necessaria per lo scopo, è stato calcolato essere più o meno il costo di 8 (!) ore di guerra.

Ora, chiedo scusa se ci sono andato giù un po' pesante. Ma il fatto è che ci sono argomenti che non sono necessariamente lievi, e uno di questi riguarda proprio l’egemonia degli imperi. Che esiste e non riguarda solo fatti di costume innocui come il vino hollywoodiano, bensì anche faccende molto meno innocenti come la potenza militare, il controllo dell’informazione e di aree strategiche del pianeta. E gli orrori della guerra.
Insomma, ha a che fare con l’antica legge del più forte e con qualcosa per il quale non riesco a trovare altro termine più calzante se non quello ormai fuori moda di “imperialismo”.
In questo caso però, con un piccolo tocco di stile, questo sì moderno. Grosso modo funziona così: assicuratevi di essere i massimi produttori di armi di distruzioni di massa, quindi dichiarate guerra a un paese accusandolo (falsamente) di produrre armi di distruzione di massa e poi usategli contro armi di distruzione di massa. Infine eleggetevi un Presidente giovane e progressista e fategli dichiarare che vi ritirerete per meglio proseguire un'altra guerra e il gioco è fatto.
Forse non vincerete la guerra, ma vi verrà sicuramente assegnato il Nobel per la pace.
E per concludere in bellezza, brindate con vino della California. Prosit.

(1.3.2010 - già pubblicato in www.iovivoiovivro.it)



Troll di regime


Avviso ai naviganti: gli autori del gruppo comparso su Facebook "Aboliamo i sussidi ai malati di SLA, tanto sono già morti" fanno parte di una corrente sedicente anarchica. Definiscono “trolling” la semina di provocazioni in rete usando il paradosso e mostrando, come loro stessi scrivono, l’ipocrisia e la falsità dei buoni sentimenti. Per fare un esempio, smascherano il falso buonismo di chi, mentre a parole considera un cane intoccabile, spesso non si indigna per le violenze verso gli esseri umani.
Usano fare, sempre a detta loro, satira senza censure e senza limiti, ridendo della “stupidità altrui”. Dichiarano di “usare” le vittime (già i morti del terremoto ad Haiti con la campagna “adotta un bambino morto” e poi ancora i mongoloidi con "Giochiamo al tiro al bersaglio contro i bambini down") come mezzo per essere paradossalmente solidali con loro e non per deriderle. Gettano le loro provocazioni nella rete di internet come “esche” e si divertono a vedere quanti utonti ci cascano, dimostrando così gli stereotipi di cui gli utonti stessi sarebbero vittime.

Si può giudicare questo loro passatempo come un’espressione di sub-cultura giovanile (sub in senso sociologico) e tollerarli, si può considerarli semplicemente dei deficienti e ignorarli, oppure ci si può indignare, perché si pensa che ci sia pur sempre un limite alla decenza, ma in quest’ultimo caso bisogna sapere che questo è certamente ciò che li diverte di più.

Chi, poi, non tollera la libertà della rete e non perde occasione per metterla sotto controllo, non crede ai propri occhi, intanto che finge di indignarsi. Per il potere, se i troll non ci fossero, bisognerebbe inventarli.

(14.2.2010)


Il Paese-dove-la-ricerca-non-c’è


C’era una volta una scienziata mite e riservata, ma tenace, molto tenace. Credeva nella libera ricerca, nel lavoro febbrile svolto tra alambicchi e provette e aveva un sogno: sconfiggere le malattie più terribili, che affliggono da millenni l’umanità, in modo che i vecchi, gli uomini, le donne e soprattutto i bambini, vivessero un po’ più a lungo e soffrissero un po’ meno per malattie a volte davvero tremende.

Ma nel Paese-dove-la-ricerca-non-c’è, il Ministero della Salute spendeva pochi soldi per questo sogno e tanti come lei, appena venivano investiti del diploma per mettersi a fare ricerca, dovevano presto rinunciare e partire per l’America. Perché nel Paese-dove-la-ricerca-non-c’è bisognava per forza arrendersi al fatto che, mentre gli studi televisivi e gli stadi di calcio erano posti sfavillanti e pieni di bella gente, i laboratori erano quasi deserti ed erano piazzati in scantinati umidi, dove spesso non c’erano solo cavie, ma anche tanti altri sorci che scorrazzavano liberi e allegri facendo marameo ai loro simili in gabbia. Nel Paese-dove-la-ricerca-non-c’è i concorsi per fare lo scienziato senza morire di fame li vincevano quasi sempre i raccomandati, che di solito avevano stranamente lo stesso cognome del Direttore Tal dei Tali o dell’Assessore Tal Altro.

La scienziata tenace decise comunque di lavorare con le cellule staminali, e sapendo che le migliori erano le embrionali, decise di darci dentro con quelle. Ora, dovete sapere che di queste cellule si discuteva molto, perché c’era chi diceva che già dopo pochi giorni dal concepimento in una provetta, lì c’era già una persona tutta intera. La scienziata tenace, però, era tranquilla, perché sapeva che, quando due persone che si vogliono bene non possono avere figli, allora si fanno aiutare da altri scienziati come lei, e succede sempre che quegli ovetti fecondati non vengono messi tutti nella pancia della mamma, ma in parte vengono scartati e congelati per sempre. Lei sapeva che quelli e solo quelli potevano essere usati per cercare di guarire le malattie più brutte, e che nemmeno nel Paese-dove-la-ricerca-non-c’è questo era proibito.

Allora si mise al lavoro e scrisse un bel progetto di ricerca, e tutta speranzosa attese il primo Bando utile perché le venisse finanziato. Ma -sorpresa!- il Bando non solo, come al solito, di soldi ne dava pochi pochi, ma diceva anche, chiaro e tondo, che potevano essere ammesse tutte le ricerche, ma proprio tutte, meno che quelle come la sua.
Tutto subito la scienziata non poteva crederci, doveva esserci uno sbaglio, ma verificato che davvero le cose stavano così, e poiché era mite ma tenace, decise che ai politici ottusi non poteva darla vinta e allora fece ricorso. Perfino nel Paese-dove-la-ricerca-non-c’è c’era una Costituzione che diceva che ogni scienziato che voleva, doveva esser libero di fare libera ricerca, però il Tribunale Regionale a cui si rivolse rispose che sì, in fondo lei aveva ragione, ma che avrebbe dovuto far firmare il ricorso al suo Direttore, perciò: niente da fare.
Di nuovo la scienziata non poteva crederci, ma poiché era mite ma tenace, decise di portare la cosa al Consiglio di Stato, dove sicuramente le avrebbero dato ragione. Al Consiglio di stato studiarono a lungo e bene la questione, perché in quel Paese le cose che sembravano semplici erano sempre le più complicate, e infine trovarono la soluzione che ci voleva: la ricerca per loro sarebbe stata ammissibile, ma dato che la scienziata che non poteva concorrere non aveva presentato nessun progetto, il progetto-che-non-c’era, non essendoci, non poteva essere finanziato.

Non c'era verso e alla fine anche la scienziata dovette capire: ecco cosa succede a chi si ostina a voler fare ricerca nel Paese-dove-la-ricerca-non-c’è.
Adesso la scienziata mite e riservata, ma tenace, è costretta anche lei a scegliere: o scappare in America come gli altri, oppure arrabbiarsi, ma tanto tanto, e non dargliela vinta neanche questa volta.
Io, che l’ho conosciuta, sono pronto a scommettere che la storia non finisce qui.

(4.4.2010 - già pubblicato in www.iovivoiovivro.it)

Il tritacarne televisivo


Ma chi l’ha detto che il lavaggio del cervello non esiste ed è solo una leggenda della guerra fredda?
Sentite questa: ripetendo nella sostanza un esperimento di 50 anni fa, la televisione francese ha girato un reality, “La zone Xtrème”, nel quale i concorrenti erano esortati a proseguire indifferenti verso la vittoria finale, non lasciandosi impressionare dal fatto che la punizione per chi sbagliava le risposte fosse una tortura a base di scariche elettriche. Nella stanza accanto a quella delle punizioni i concorrenti ascoltavano le grida di dolore dei condannati e dovevano dimostrare i loro nervi saldi non reagendo e proseguendo come nulla fosse.
I conduttori riuscivano ad imporsi semplicemente insistendo e dichiarando di assumersi loro tutta la responsabilità di quel che accadeva. I concorrenti non lo sapevano, ma a fingere le urla erano attori. Ebbene, solo il 19% dei concorrenti si è rifiutata di continuare il reality, tutti gli altri sono andati avanti, pur dimostrando, in alcuni casi, di essere anche fortemente turbati.

L’esperimento di Milgram, nel 1961, aveva già dimostrato che qualunque persona assolutamente normale poteva, in particolari condizioni, accettare di svolgere compiti che la coscienza e la morale avrebbero in normali circostanze portato a rifiutare. Quando l’autorità, insomma, è univoca e indiscussa e quando la personale responsabilità venga assunta da un’autorità superiore, il cervello va in pappa e la maggior parte delle persone smette di pensare.
Si confermava così quanto già detto da Hannah Arendt in occasione del processo ad Eichmann: non c’è bisogno di essere sadici assassini per sterminare milioni di esseri umani, si può essere onesti padri di famiglia e contemporaneamente comportarsi da killer seriali, facendo coscienziosamente il proprio dovere in obbedienza ad un’ordine superiore . Eichmann non era un mostro, nessuno può dirsi immune alla “banalità del male” e la Shoah non è affatto detto che non si possa ripetere.

Nulla di nuovo, dunque, se non che il video e il disperato bisogno di conquistare in tv il proprio quarto d’ora di gloria, producono inedite varianti di stati di rincoglionimento di massa. Forse è arrivato il momento di dirci che la televisione, già grandioso mezzo di alfabetizzazione popolare, è ormai morta da tempo: propinandoci ogni giorno una realtà che non esiste, vende ormai un paese di cartapesta, ma così facendo lo modella a sua immagine e somiglianza. Umilia e mortifica l’informazione, costringendola a violentare sé stessa, a trasformarsi in spettacolo, condannata com’è ad inseguire la legge dell’audience.
Meno male che c’è internet, che se non ci fosse bisognerebbe inventarlo: è lì infatti che si è spostata la lotta per i diritti umani e civili e per la sopravvivenza del pensiero e non a caso il potere, che teme ciò che non può controllare, non perde occasione per metterlo sotto censura. Anche lì vige la legge dello spettacolo, ma dallo spettacolo la rete, per sua natura, trae energia che sfruttiamo per interagire e uscire dalla passività. E’ un tema intrigante, magari lo affronteremo in un prossimo articolo.
Intanto, in tv, può accadere che il figlio di un malato di SLA debba dire fantasiosamente di volersi vendere un rene per poter andare in video, essere poi trattato come carta da parati e rispedito nel dimenticatoio nel giro di 24 ore. Avanti il prossimo: la tv è ormai un baraccone tritacarne che ingoia tutto, anche la residua attività elettrica cerebrale.
Avanti, verso un radioso futuro da elettroencefalogramma piatto.

(14.3.2010 - già pubblicato in www.iovivoiovivro.it)